Yoknapatawpha, Terra divisa, Archivio Zeta a Volterra
Renzia D’Incà | 20/10/2016 | Rumor(s)cena
VOLTERRA – (Pisa) Una processione laica, visionaria, un mix testuale ed extratestuale fra installazione e acrobazia fisica per le strade e spazi simbolici della città etrusca. Performativa anche per il pubblico: due ore e trenta di impegno fisico e mentale in un pomeriggio afoso, una matrice sonora sensuale e mistica dal fortissimo tellurico imprinting letterario – cosa che già sulla carta spaventa un po’, per la gigantesca messa in cantiere di territori così promiscui ma anche distanti rispetto alcuni codici di rigida teatralità più perspicui forse ad un certo teatro di narrazione. Questa la scommessa portata da Archivio Zeta dentro il festivalVolterraTeatro 2016. La compagnia formata da Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni (allievi e non a caso di Luca Ronconi e Marisa Fabbri), con all’attivo di lavori di forte impatto epico ed etico-visionario al passo della Futa (al Cimitero germanico sull’Appennino tra Bologna e Firenze), hanno portato al festival una ricchezza di contenuti e di forme sorprendente dopo le due precedenti creazioni collettive, quali La Ferita e Pilade alle Saline di Volterra.
L’antefatto era già in nuce, nell’inverno passato, dove si era creata e rafforzata una sinergia di idee a fucina; di ideazioni programmatiche ed artistiche fra il gruppo bolognese e la Compagnia della Fortezza – che ha sostenuto l’evento, con la realizzazione del laboratorio permanente Logos. L’insolita partitura, che vede due spazi e due diversi, anche se contigui modi di sentire e pensare un Teatro contemporaneo (quello bolognese dove opera Archivio Zeta e quello toscano di Carte Blanche a Volterra), ha elaborato nella ideazione una messa in scena in cui confluiscono due capolavori quali il Macbeth shakespeariano (allestito in quasi contemporanea alla Futa) e quello dello statunitense Faulkner (Nobel per la letteratura nel 1949), per frammenti da Big Woods su ispirazione di testi dai due capolavori L’Urlo e Furore. Yoknapatawpha è il titolo della creazione scelto che deriva dalle parole degli indiani d’America Chickasaw: Yacona e Petopha, stante a significare terra divisa. Il nome con cui Faulkner individua una località immaginaria di molti dei suoi romanzi e racconti. Ma designa anche il nome del grande fiume americano Mississippi che attraversa gli stati del Sud, e quindi una dimensione legata all’acqua-tema, spesso ricorrente come rituale fantasmatico nella partitura drammaturgica, in una scena ad alto tasso di poeticità, dentro lo spazio del Museo. così come quello della foresta che si muove-il fiume umano che percorre le vie della cittadina, composto da due gruppi di due diverse provenienze, il bolognese ed il volterrano, confondendo corpi e volti della marea dei cittadini-attori con quelli dei turisti e passanti.
La trama anche se di non facile iniziale comprensione, per i continui rinvii alla duplice letterarietà, e i continui cambi di registro stilistico – dal narrativo al performativo (il dittico costituito da Sound and Fury e Big Woods), ovvero il paese che non c’è. Un posto utopico, un testo drammaturgico intertestuale che parla di sofferenza, odio interrazziale, sradicamento, perdita di identità, storia dei vinti come gli indiani nativi (come i neri delle piantagioni del sud degli Stati Uniti d’America), ad un certo punto passa in secondo piano, la lettura logica viene spiazzata dall’agito, dalla visione, dal perdersi nella fantasmagoria delle emozioni e delle immagini ma soprattutto dal fascino dell’azione corale.
Questa processione laica prende il via dalla rampa del cortile del Maschio della Fortezza di Volterra, fra possenti mura svettanti: da un lato – la chiusura, la reclusione e dall’altra un paesaggio mozzafiato, uno spazio aperto sull’infinito su colline senza tempo. Qui avviene una azione performativa breve che dà l’avvio alla lunga marcia a stazioni, quasi via crucis ma con finale di speranza condivisa che si concluderà dentro il Teatro Persio Flacco. Muniti di cuffie forse per non far disperdere il pubblico, si segue la carovana, un flusso migratorio che conduce per le vie della città mescolati ai tanti turisti. Il popolo viaggiante è costituito da attori non attori, giovani, bambini ed anziani delle due diverse provenienze: quella del laboratorio invernale Logos di Volterra e quella l’emiliana. Canti, danze, musiche suonate e soprattutto parole dense di significati si autoraccontano.
Una piccola comunità simbolica che sulle spalle si carica la narrazione di un popolo combattente, fedele alle origini, che con riti arcaici antropologici si assiste alla cerimonia dell’acqua; e quella dell’uovo di luce che scende dall’alto del Persio Flacco (va ricordato in particolare) permette di riconciliarsi con le origini della Terra, della famiglia, del gruppo autoctono che non cede al prepotente di turno. Alle logiche del Potere del più forte che vorrebbe piegarli o spazzarli via per preservare valori e poterli trasmettere ai figli. L’opera corale è imponente come il progetto artistico.
Regia e drammaturgia di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni. Dittico da Shakespeare/Faulkner. Con Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni e i cittadini-attori del gruppo Logos di Volterra e del laboratorio di Bologna. Partitura sonora Patrizio Barontini
Visto a Volterra il 29 luglio 2016 VolterraTeatro Festival Rampa della Fortezza Medicea-vie centro storico- Teatro Persio Flacco