Una pura e semplice incertezza
Elena Pirazzoli | 11/11/2015 | La rivista Il Mulino
Il 2 novembre di quarant’anni fa Pier Paolo Pasolini veniva ucciso all’idroscalo di Ostia. Moltissime le iniziative per ricordarlo, tra l’approfondimento, l’agiografia, le ricostruzioni degli scenari possibili per la sua fine così atroce.
Riproporre Pasolini non è facile: la sua visione politica, spesso sentita e presentata come profezia, va calata nel suo tempo e nel suo vissuto. Tuttavia, le sue parole hanno sempre, che si tratti di sceneggiature, romanzi, interviste o corsivi per quotidiani, una fortissima caratura poetica. Ed è questo carattere ad aver permesso loro di superare le barriere del tempo e i cambiamenti sociali e culturali.
Nell’ampio corpus pasoliniano, spiccano per difficoltà le tragedie in versi: una forma anacronistica già per il momento in cui sono state scritte, alla fine degli anni Sessanta, quando furono tiepidamente accolte dalla critica ma anche dal mondo politico, che cercava l’azione, non poesia e riflessione. Così fu per il Pilade, in cui Pasolini rende protagonista una figura marginale dell’Orestea per raccontare il dopoguerra italiano, il rapporto della società con il capitalismo, la crescita della città, ma anche il fascismo, la Resistenza, la distruzione della guerra, le elezioni, la frizione tra presente e passato, la solitudine di chi non sa scegliere il progresso dettato dalla Ragione (la dea Atena) e preferisce il dubbio: “una diversità che dà scandalo”.
La compagnia teatrale Archivio Zeta ha dedicato un anno di lavoro al Pilade, sezionandolo in parti e trasformandolo in un ciclo, Pilade/Pasolini: dopo aver lavorato quattro anni all’Orestea di Eschilo, l’approdo a questo testo è sembrato necessario. Ma Pasolini non è Eschilo: se il mito e la tragedia classica hanno attraversato i secoli, sono stati riletti, risemantizzati, trasposti via via in presenti diversi, la tragedia di Pasolini era già a sua volta frutto di una trasposizione.
La proposta di Archivio Zeta è stata quella di portare le parole di Pasolini su luoghi significativi del passato e del presente del Paese, coinvolgendo le persone (il pubblico ma anche gli attori non-attori che hanno formato i cori delle diverse parti) in questo percorso: un’esperienza fatta non solo di ascolto, ma anche di sguardo e percezione fisica.
Smontando il testo e privandolo della sua sequenzialità, il primo frammento Pilade/Montagne è stato messo in scena tra i boschi, i prati e le rovine di Monte Sole, nei luoghi degli eccidi dell’autunno 1944 (noti come “strage di Marzabotto”) il 25 aprile di quest’anno, in un altro anniversario, il settantesimo della Resistenza. In quel luogo hanno risuonato, pronunciate dal coro dei contadini e delle Eumenidi (cittadini e cittadine bolognesi), le parole di Pasolini che descrivono, sotto forma di rivelazione, il massacro della guerra e l’impegno di tanti: “Le montagne saranno cumuli di gioventù silenziosa./ La pianura un formicolare di madri con poveri lumi”.
Nell’estate sono stati messi in scena altri frammenti della tragedia, tra le Saline di Volterra e il Cimitero militare germanico del Passo della Futa, tra luoghi del lavoro e del potere.
Il 1° novembre il Pilade è stato ricomposto e portato a Bologna – città della nascita e degli studi di Pasolini – in una “maratona” impegnativa per attori e pubblico, un percorso da una villa neoclassica incompiuta al Poligono di tiro fino a una pensilina dell’ex mercato ortofrutticolo: tutti luoghi periferici, a prescindere dalla loro collocazione nella mappa della città.
Villa Aldini si trova sulla collina che domina Bologna, da dove Napoleone godette della vista sulla città; i suoi lavori iniziarono nel 1811 ma non furono completati prima della caduta napoleonica. Dopo avere cambiato molte funzioni, negli anni Trenta divenne Monumento alla Vittoria e le fu accostato un edificio destinato a ospitare i familiari dei caduti, che dal 2014 accoglie richiedenti asilo: per lo più giovani uomini, recuperati nel Mediterraneo con l’operazione Mare Nostrum e ora in attesa di conoscere l’esito della domanda di protezione internazionale.
Alla metà degli anni Settanta Pasolini scelse questo luogo come set per gli esterni della “villa dei Signori” in Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Il Poligono di tiro, costruito nei primi anni del Novecento, venne utilizzato dalla Repubblica sociale italiana per le esecuzioni dei partigiani: un monumento e una lapide sul lato del complesso lo ricordano oggi, mentre al suo interno continuano a svolgersi gare e corsi.
L’ex mercato ortofrutticolo è stato oggetto negli ultimi anni di un ampio progetto di trasformazione urbana: sono stati abbattuti quasi tutti i vecchi edifici e impianti, a parte l’ingresso monumentale di carattere razionalista e la pensilina attribuita a Pierluigi Nervi (ma in realtà di Renato Bernardi), e al loro posto sta sorgendo – lentamente, a causa della crisi – un complesso di edifici a torre a destinazione abitativa.
In queste “scenografie di senso” Archivio Zeta ha ambientato il testo pasoliniano, poetico e oscuro: parole impossibili da cogliere nella loro interezza, ma capaci di riverberare profondamente grazie alle immagini create dalla messa in scena teatrale. E sono state proprio le immagini a generare un’attivazione della riflessione sul presente: a Villa Aldini, il coro formato dai richiedenti asilo e cittadini di Bologna ha estratto coperte isotermiche come quelle usate durante i salvataggi in mare e improvvisamente diventate un’icona quest’estate, sugli scogli di Ventimiglia, durante la lunghissima attesa dell’apertura di quella frontiera.
Una scelta rischiosa, quella di Archivio Zeta, sul filo dell’estetizzazione: ma il “tempo di posa” di quel gesto, un tempo che un’istantanea non può rendere, ha trasformato l’immagine in una percezione fisica, fatta di luce cangiante e soprattutto di suono, quello della sottile pellicola mossa dal vento. Quasi a ricordare che “in questo angolo tagliato fuori dal mondo/ si compie invece una protesta/ (che io avrei voluto violenta ed è mite)”.