I PERSIANI
di Eschilo
regia Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni
con Enrica Sangiovanni, Stefano Scherini, Luciano Ardiccioni, Franco Belli, Andrea Sangiovanni, Alfredo Puccetti, Vieri Parisi, Fosco Fratti, Sandro Margheri, Giuseppe Orlandi, Gianni Piazza, Manuela Bernardi, Vanessa Billi, Elisabetta Borelli, Young-ha Choi, Sabrina De Luca, Monica Malvezzi, Rosanna Marcato
composizione e direzione del coro Edoardo Materassi
costumi Anne Solgaard
produzione Archivio Zeta 2003
sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi
Abbiamo scelto di mettere in scena I Persiani al Cimitero della Futa perché la tragedia di Eschilo è ambientata presso la tomba di Dario il Grande e parla di una guerra, quella tra il grande impero persiano e Atene, e di una distruzione, quella del glorioso esercito persiano guidato da Serse nella battaglia di Salamina del 480 a.C..
Il cimitero ci è sembrato subito il palcoscenico naturale per rappresentare questo testo: davanti alle infinite lapidi e allo spazio vuoto che si dilata a perdita d’occhio si avvertono immediatamente i segni della guerra, il prezzo altissimo della barbarie e l’infinito dolore che ogni vita interrotta porta con sé. Fare di questa spirale di terra il luogo in cui si pronunciano questi versi antichi ma ancora presenti ci riporta alle parole lucide e scarne di Cesare Pavese: ‘…ogni guerra è guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.’. Allora questo monumento di pietra diventa la reggia persiana, il campo di battaglia a Salamina ma contemporaneamente lo spazio aperto della terra martoriata nella seconda guerra mondiale e lo scenario ipotetico concreto delle stragi future.
Eschilo in questa, che è la più antica tragedia giunta fino a noi, mette in scena un fatto realmente accaduto e al quale partecipò direttamente, caso unico nella storia del teatro antico che si occuperà da allora in poi solo di miti. E lo fa dando la parola al nemico, ai vinti: i Persiani che in lingua greca piangono il disastro della loro distruzione. L’eco di quei versi, irripetibili per pietà e umanità, è alla base della nostra riflessione e marca il segno della nostra proposta teatrale.
Il vincitore, nell’arco di tempo della tragedia, cede la parola al vinto, si immedesima in lui, soffre della sua stessa sofferenza. Così facendo, il respiro tragico si amplia e la riflessione sul dolore insanabile dell’uomo diviene altissima: si invoca una pietà arcaica, si chiede un superamento dell’identità fine a se stessa, si sperimenta un riconoscimento sconvolgente nell’Altro che muore per demolire in noi la nostra stessa appartenenza.
Un uomo nuovo nasceva nel teatro di Eschilo, un uomo la cui nascita sarebbe dipesa indissolubilimente da una morte cupa e grave, e la cui esistenza per essere tale avrebbe dovuto, per forza di cose, nutrirsi di una nuova civiltà.
I versi di Eschilo sono la materia dello spettacolo che, come nei teatri greci, è recitato alla luce del tramonto, senza illuminotecnica e senza altro se non la presenza degli attori e del Coro che dicono la Storia di ‘un’altra distruzione’ dell’umanità.
Un testo che chiede un confronto spietato con il passato doloroso di questo nostro Paese e il presente-futuro che di nuovo e ancora mette in scena lo scontro violento tra Oriente e Occidente. Uno spettacolo che parla di scontro di civiltà, prima tappa di un percorso tragico e filosofico sull’Occidente.
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