SUL LUOGO DEL NEMICO
A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Elena Pirazzoli | 11/09/2019 | RER Radio Emilia Romagna
Archivio Zeta, la compagnia fondata da Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, ha pubblicato un libro che invita a conoscere la storia del Cimitero militare germanico del Passo della Futa, dove dal 2003 mettono in scena le loro rappresentazioni. Un luogo perturbante, scelto per raccontare le tragedie e le contraddizioni umane là dove hanno segnato concretamente il paesaggio. A Elena Pirazzoli, la storica che ha curato il volume, abbiamo chiesto di leggere un brano della sua introduzione.
Percorrendo la statale che connette Bologna e Firenze, arrivati nel tratto appenninico nei pressi del passo della Futa, se si solleva lo sguardo si scorge, tra le cime degli alberi, una sorta di alta lama di pietra scura. Solo chi si sofferma ad approfondire scopre che si tratta dell’elemento apicale del Cimitero militare germanico, ovvero il Soldatenfriedhof Futa Pass.
In questo luogo sono raccolte le spoglie di più di 30.000 soldati tedeschi caduti durante la Seconda guerra mondiale, prevalentemente durante i combattimenti avvenuti sulla Linea Gotica: sepolti provvisoriamente in migliaia di luoghi attorno alle zone di battaglia, dopo il 1957, grazie alla ratifica di un accordo siglato tra Italia e Germania, furono traslati in alcuni cimiteri appositamente costruiti e curati dal Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge (VDK), un ente preposto alla cura delle tombe di guerra fondato nel 1919, all’indomani della conclusione della Grande guerra.
Il Soldatenfriedhof Futa Pass non è quindi l’unico cimitero militare tedesco sul suolo italiano, tuttavia, possiede una sua unicità, che non è data solo dall’aspetto quantitativo – è quello con il maggior numero di sepolture – ma anche dalle scelte estetico-formali sottese alla sua realizzazione.
La spirale nel paesaggio disegnata dall’architetto Dieter Oesterlen nel 1959 e costruita – faticosamente per via delle difficili condizioni del terreno – durante tutto l’arco degli anni Sessanta, rappresenta una cesura netta rispetto alle forme conferite al lutto di guerra prima di quel momento. Dagli Heldenhaine – i «boschi degli eroi» – dei primi anni Venti si passò, negli anni Trenta, a realizzare Totenburgen, «fortezze per i morti», in cui la morte in battaglia assume il significato di sacrificio per la patria, quell’Heimat che in tedesco prende una sfumatura più intima, profonda e pesante. Fu in particolare il nazismo a utilizzare questa forma, in cui si fondono sacralità, mistica e potenza. Dopo il 1945 tutto deve cambiare, le forme abusate dal nazismo e dal fascismo sono messe da parte.
Quale monumento può raccogliere ed esprimere il dolore per le vittime? Il primo memoriale per cui viene bandito un concorso è quello per le Fosse Ardeatine, subito dopo la liberazione di Roma del giugno 1944: l’esito non fu un monumento ieratico e centralizzante, ma un percorso sul luogo stesso dell’eccidio, culminante in una cripta costituita da un’immensa lastra tombale posata sulle sepolture delle vittime, deposte nel terreno accanto a dove furono uccise.
Se è difficile trovare una forma per il lutto e la memoria delle vittime civili, lo è certamente ancora di più per il lutto e la memoria di soldati caduti, da nemici, sul territorio avversario, e qui sepolti.
Il Cimitero militare germanico della Futa venne inaugurato il 28 giugno 1969, sotto gelide raffiche di pioggia. Al clima aspro del passo si accompagnava anche un clima di tensione da parte della popolazione locale, come ricordano alcuni abitanti di Firenzuola, allora ragazzini. Ma di fronte alle madri in lutto, che dopo ventiquattro anni vedevano la tomba dei loro figli, la contestazione divenne silenzio. Un silenzio, quello italiano, che ha avvolto questo luogo per decenni. Ma anche un silenzio tedesco, in cui i caduti potevano infine «riposare»: il verbo ruhen è una delle poche parole, oltre ai nomi e alle date di nascita e di morte dei soldati, che si possono leggere nel Soldatenfriedhof Futa Pass. Silenzio per il difficile lutto tedesco.
Sono salita la prima volta al Cimitero militare germanico nell’estate 2005. L’occasione, grazie all’invito di un’amica, era uno spettacolo teatrale: Sette contro Tebe di Eschilo. Pochi mesi prima avevo concluso una ricerca di dottorato dedicata alla trasformazione dei monumenti nella seconda metà del Novecento, alla crisi formale seguita alla fine del secondo conflitto mondiale e generata dalla qualità stessa dei crimini accaduti durante quella guerra. A partire da ciò che resta: questa sembrava l’unica possibilità rimasta alle discipline del progetto, interpretata e declinata in diverse modalità da architetti e artisti.
Al passo della Futa mi trovai all’interno di una rappresentazione teatrale che, con la capacità di contrarre il tempo che solo le tragedie antiche hanno, mostrava la lunga durata delle questioni cruciali per l’umanità, quelle che prescindono le ere storiche rimandando al profondo, all’archetipico. La compagnia che metteva in scena Eschilo era Archivio Zeta, che già da due anni aveva scelto quel luogo come teatro: come scenografia, spazio scenico, palco e platea. La guerra tra Eteocle e Polinice, la guerra civile, la guerra fratricida, veniva ambientata in un camposanto di soldati. In un teatro di Marte.
Da allora, più volte sono tornata al Cimitero militare germanico della Futa per vedere le rappresentazioni messe in scena da Archivio Zeta ogni estate. Dopo Tebe, quella spirale nel paesaggio è diventata ai miei occhi il labirinto del Minotauro, le trincee e i bunker della Grande guerra, il castello di Macbeth attaccato dalla foresta che si muove. E allo stesso tempo è sempre rimasto il cimitero con i suoi campi di sepolture, la cripta dal soffitto basso e i tagli di luce, il famedio mosaicato e la vela di pietra protesa verso il cielo. La forma del Soldatenfriedhof Futa Pass è sempre la stessa ed è sempre cangiante.
Il Soldatenfriedhof Futa Pass è un luogo della memoria? Coniato alla metà degli anni Ottanta dallo storico francese Pierre Nora come paradigma per analizzare la storia nazionale della Francia, lieu de mémoire inizialmente non indicava necessariamente una presenza territoriale, un ancoraggio a un determinato luogo fisico, ma andava inteso in tutte le sfaccettature del termine latino lŏcus: dall’oggetto più materiale e concreto fino a quello più astratto e intellettualmente costruito (vale a dire: musei, archivi, monumenti, sacrari ma anche personaggi, date, trattati, avvenimenti, simboli, eccetera). La grande fortuna critica di questo paradigma lo ha fatto assumere dalla storiografia di diversi Paesi europei, mentre in parallelo si generava un’altra accezione dell’espressione, adottata soprattutto nella gestione del patrimonio culturale, in cui prende un senso concreto e puntuale.
Se luogo della memoria in senso noriano è un luogo (materiale e immateriale) significativo per una determinata comunità, che il lavoro del tempo o la volontà degli uomini hanno reso un elemento simbolico, questa peculiare espressione è divenuta anche sinonimo di un preciso punto del territorio (un edificio, una struttura, un paesaggio) in cui sono accaduti eventi di forte peso per la comunità (locale e nazionale), per lo più connessi con la violenza del secondo conflitto mondiale, o comunque con fatti tragici e violenti avvenuti a partire dalla seconda metà del Novecento. In alcuni casi i due significati coincidono: per luoghi fisici divenuti anche luoghi di senso per l’intera comunità nazionale.
Il Cimitero militare germanico del passo della Futa non sembra avere la forte natura simbolica e identitaria richiesta dal paradigma di Nora: si configura piuttosto come un luogo dell’oblio, di margine territoriale e percettivo, sia per la comunità degli uomini cui appartiene culturalmente, sia per quella di afferenza territoriale. Neppure la seconda accezione corrisponde con esattezza a questo cimitero: la Futa non è stata teatro unico delle battaglie in cui morirono i soldati qui sepolti. Le loro morti corrispondono a un paesaggio più ampio, che si svolge lungo l’Appennino: luogo della memoria, in questo senso, è l’intera Linea Gotica.
Il tedesco è stata l’unica lingua europea a cercare un traducente appropriato per lieu de mémorie, coniando per questo paradigma storiografico la parola Erinnerungsort. Esisteva già il termine Gedenkstätte, in uso soprattutto dal dopoguerra per indicare il luogo, tangibile, della commemorazione, usato anche per indicare i luoghi degli ex campi di concentramento. Se Ort e Stätte significano, con alcune sfumature di differenza, «luogo», Erinnerung indica la facoltà, la capacità di ricordare mentre Gedenken fa riferimento al commemorare, quindi alla ritualità della memoria. Facoltà intellettuale e ritualità: due accezioni diverse della memoria e del ricordo.
Pressoché assente dalla memoria intellettuale, intesa come conoscenza, il Cimitero della Futa è un luogo di commemorazione, benché difficile e delicata. Per luoghi come questo si potrebbe utilizzare forse la definizione di difficult heritage, a causa dell’eredità pesante che porta. Tuttavia, questa ultima espressione potrebbe essere molto più appropriata per la Totenburg di Quero, inaugurata nel 1939, nella cui cripta un mosaico raffigurante dodici apostoli soldati sembra emanare ancora, benché epurato dalle svastiche, l’essenza dell’ideologia nazista. O alle rovine della Totenburg incompiuta di Pinzano, concepita quasi come un’arca dei morti arenata su Col Pion, protesa a dominare il Tagliamento, volta verso un’eternità nazista.
Al Soldatenfriedhof Futa Pass vi è la consapevolezza – già a partire dal momento progettuale – del peso storico, etico, umano di cui farsi carico. Un peso che ha determinato il silenzio, l’assenza, la marginalità di questo luogo nelle mappe storiche. La sua presenza memoriale, fino a oggi, è stata soprattutto intima, privata, familiare: luogo della commemorazione delle famiglie tedesche, non della comunità nazionale. Invece, dal punto di vista della comunità ospitante, la sua natura di luogo può essere definita, allo stato attuale, come quella di «luogo ultimo del nemico».
Quale senso può avere, oggi, visitare un cimitero militare della Seconda guerra mondiale e in particolare un cimitero tedesco in terra italiana? Luca Baldissara, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Pisa e autore di ricerche sui crimini di guerra e sulla giustizia di transizione, ha cercato di rispondere a questa difficile domanda sul presente fondando la sua riflessione sulla necessità per la storia, oggi, di andare sui luoghi, di essere meno «despazializzata».
I cimiteri dei caduti nella Grande guerra, a cento anni dalla sua conclusione, non sono più meta di visite di parenti, sono invece diventati luoghi della storia e di quella memoria intesa come facoltà intellettuale, come capacità di sentire la storia. I cimiteri dei caduti della guerra successiva stanno attraversando una fase di passaggio e risignificazione.
Per aggiungere complessità alla conoscenza dei fatti storici bisogna attraversare i luoghi che ne sono stati teatro: portare quello che si è letto, e studiato, sui documenti, là dove gli eventi – e la violenza – hanno preso corpo. E affrontare così quel «vertiginoso senso di confusione» scaturito dal divario tra l’esperienza dello studio e l’esperienza del luogo. Tra eloquenza della narrazione e silenzio della realtà.