Franco Belli, attore, professore, poeta a tempo ritrovato
17/11/2012
Corriere di Bologna / BOblog
Massimo Marino
Franco Belli, attore, professore, poeta a tempo ritrovato
Quando muore un attore si apre un vuoto. Con lui scompare la grana di una voce, il peso l’inarcatura il vento di un corpo, la luce e l’ombra di uno sguardo, l’unicità di una figura, il respiro la dolcezza la furia di una presenza. Franco Belli l’ho visto in scena troppo tardi, solo quest’estate in Eumenidi e in Edipo re di Archivio Zeta, tra i monti tosco-emiliani. L’incontro con questa compagnia è stata folgorazione di un lavoro rigoroso, inventivo, di spessore fenomenale in totale indipendenza. Rivisitano la tragedia greca con begli attori, in gran parte non professionisti. Senti un fiume scorrere, la voglia di riportare quelle parole sempre vive ai nostri dolori, alle nostre inquiete domande d’oggi. Sembravano venire da mondi antichi gli uomini, con le barbe bianche, le voci profonde o leggere, i volti segnati. Sembravano eredi di antiche tradizioni contadine, e poi scoprivi che uno era un filosofo, l’altro, Franco Belli, un famoso docente di economia, tra quelli che avevano lanciato la facoltà di Scienze bancarie di Siena. Franco Belli è morto il 6 novembre, lasciando Archivio Zeta senza uno dei suoi puntelli. Dopo, ho scoperto che era anche poeta, come aveva detto lui “a tempo ritrovato”. Per ricordarlo, ho chiesto ai fondatori della compagnia, Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni, uno scritto. Eccolo qui.
Un ricordo di Franco
S’i fosse foco, arderei ‘l mondo;
s’i fosse vento, lo tempestarei;
s’i fosse acqua, i’ l’annegherei
Abbiamo conosciuto Franco nel 2002 alla Traversa, la sua Itaca, la sua Combray, la sua Monument Valley, la sua Dublino, vicino al Passo della Futa, dove lui viveva d’estate, in una vecchia casa di famiglia sulla statale 65. Fu tra noi un amore a prima vista, fulminante. Ci leggeva ad alta voce di tutto ma soprattutto, in quel tempo, il suo Pinocchio in versi: aveva scritto una geniale versione in endecasillabi di Pinocchio. All’epoca ci eravamo da poco trasferiti in montagna, in fuga dalle città e dalle morte stagioni e vivevamo là vicino a lui, alla Selva. Anche noi stavamo lavorando su Pinocchio e su questo terreno pinocchiesco ci incontrammo. Mentre Franco ci leggeva i suoi versi capimmo non solo che era un poeta vero, (il suo Pinocchio è tutto ritmo e lessico, padronanza totale del gergo, sapienza e amore) ma che leggeva in un modo straziante, furioso, ipnotico. Lui era Collodi e Pinocchio nello stesso momento. Riusciva a conferire al verso, alla parola, una solennità contadina. Spezzava il ritmo, pestava un accento e poi spremeva, aiutato dal fumo e dal vino, le parole.
Ci mettemmo subito a lavorare insieme. Avevamo appena deciso di fare una tragedia al Cimitero Militare Germanico del passo della Futa e fu così che gli chiedemmo di essere l’ombra di Dario ne I Persiani. Rispose che non ce l’avrebbe mai fatta (a imparare a memoria), che al massimo poteva fare un’ombreta (de vin…). Era una parte importante, delicata, ma noi sapevamo che ce l’avrebbe fatta e bene anche, era un professore universitario, abituato a far lezione, insomma iniziammo le prove. E non abbiamo più smesso. Dieci anni interi senza mai fermarci: Dario ne I Persiani, Tiresia in Antigone, Pluto in Plutocrazia, Oceano in Prometeo Incatenato, Copernico ne Il Copernico di Leopardi, il soldato in Agamennone, il Corifeo in Edipo Re, il delegato del popolo in Eumenidi, il Cimitero della Futa, i teatri antichi di Segesta, Tindari, Fiesole, Sant’Anna di Stazzema, gli osservatori astronomici di Arcetri, di Loiano, di Libbiano… Scappava da Siena, dall’università, per venire in montagna a provare, a ripetere, perdendo sempre il copione (rimandatemelo…), coi foglietti della parte scritti a mano in tasca, rompendo le palle a tutti (risentimela sù…), a Niccolò, alle figlie, a Anna, la sua moglie che lo correggeva se modificava il testo e come sempre lo rimproverava se si distraeva. Abbiamo provato e riprovato in questi anni ed è stata una magnifica avventura: Eschilo, Sofocle, Aristofane, Leopardi, Pavese.
Come era bello! Un fool, la sua barba, i suoi occhi, la grana della sua voce. Sì, noi siamo stati proprio innamorati, chimicamente. Ci divertivamo un sacco. Erano dada, jazz le sue recitazioni, così ironiche, profonde, raffinate, consapevoli. Tutto in lui era così. Non stava mai fermo. Mai. Quando dovevamo andare a fare spettacolo all’alba a Segesta, per lui era normale svegliarsi alle quattro e mezza. E già era attivo, già preso il caffè, voleva il giornale e andare, andare a recitare. E mentre gli altri facevano le loro prove, lui commentava, dibatteva, recensiva, e scriveva, disegnava, faceva vignette, componeva.
Gli piacevano gli oggetti. Era un raccoglitore: legni, chiodi, bulloni, sassi, bossoli, un accumulatore, un collezionista anarchico di tutto. In macchina o nel furgone delle scenografie al ritorno dalle tournée avevamo sempre un sacchetto di sassi raccolti da Franco. Gli piaceva tutto, tutto attirava la sua attenzione semplicemente perché esisteva e si trovava lì in quel momento, e riusciva anche a farti vedere le doti incredibili di ciò che aveva raccolto, e tu arrivavi a pensare: incredibile, come ho potuto non vederlo io prima di lui?
Parlava sempre, era sempre pronto.
Avremmo dovuto essere a Verona a fare Edipo il 6 novembre, il giorno che è morto. Abbiamo fatto 190 repliche con Franco: per noi che siamo al confino sono tante, una infinità di repliche. Come faremo senza di lui? un dolore assoluto definitivo cosmico ci ha preso. Abbiamo fatto l’ultima replica di Edipo Re il 26 agosto allo Spazio Tebe: Franco stava già male, molto male, ha fatto tutte le repliche di Eumenidi stando male, eppure fino all’ultimo che forza che dignità nel portare in alto le parole. Aveva il compito di insegnare a votare, la prima votazione della storia, trasformando la pietra da oggetto di offesa a gesto democratico. Gli piaceva tantissimo questa cosa: era un gesto rivoluzionario, politico! Chiudeva l’Orestea in dialogo con Alfredo: Franco aveva l’ultima battuta. L’ultima battuta di un lavoro durato tre anni. Parlava di futuro e di ansia di futuro. Parlava di pazienza. Di grande pazienza.
Ciao Franco, padre buono.
Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni
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