Ritorno alla sostanza tecnologica con Archivio Zeta
Giulio Sonno | 19/12/2017 | Paper Street
Ritorno alla sostanza tecnologica con Archivio Zeta
Come si fa allora ad ereditare?
Forse ripartendo, meglio, riattingendo a una tecnologia più antica, più profonda, più radicata nella storia dell’uomo, una tecnologia fatta di materia solida, concreta, materia viscosa, ruvida, lontana dal lucido patinato dell’apparenza da mercato, una materia che sia sostanza.
Sembra questo il percorso cui conducono Archivio Zeta con il loro Vizio di forma (prima tappa del progetto AREADIBROCÀ). Una produzione che nasce nuovamente indipendente dopo l’esperienza pratese (Plutocrazia non ha avuto distribuzione) e che grazie alla collaborazione con ERT ha visto una felice tenitura estesa alle Moline di Bologna, con numerose occasioni di incontro e approfondimento pre- e post-spettacolo, com’è tipico dei processi “diffusi” della compagnia (v. La Zona Grigia con le scuole).
L’ispirazione è Primo Levi: il Primo Levi chimico e scrittore, come tiene a ribadire la compagnia, non l’autore antologico liquidato a testimone dell’Olocausto. Levi infatti era uomo di scienze – al plurale –, mosso cioè da una curiosità empirica che lo portava a sperimentare con le parole come faceva, di mestiere, con i polimeri.
Nulla è piú vivificante di un’ipotesi
— Primo Levi Verso occidente, in Vizio di forma
Immaginare dunque, tentare, sperimentare, creare, fallire, ritentare, aggiustare, apprendere, elaborare: sono tutte azioni che accomunano i pasticci del bambino di ieri alle scommesse dell’uomo di oggi. E l’organizzazione di questo processo altro non è che ciò che chiamiamo tecnologia.
Teniamo conto, dopotutto, che gli anni in cui scrive Levi sono gli anni in cui gli artisti visivi europei e statunitensi ricorrono nelle loro creazioni a materiali non convenzionali (l’informalismo prima, l’arte povera poi): muffe, acidi, fibre sintetiche, resine viniliche, o l’avvento del polipropilene che trasformerà radicalmente design, moda, interni (e che varrà a Natta e Ziegler il Nobel nel ’63).
Insomma, è la rivoluzione dei materiali: si scompone e si ricompone—nelle scienze e nelle arti. L’homo ritorna faber, ora però senza più i limiti della natura, perché grazie alla chimica può alterare la materia fin nelle sue particelle elementari. Smonta il mondo e lo rifonda a suo piacere.
È la cara vecchia hybris: quella tentazione irresistibile dell’uomo a fare il dio onnipotente.
E se non impara più, l’uomo, è anche perché più non sa ereditare l’esperienza del passato.
La tecnologia, infatti, è mossa dalla spinta al progresso, e il vizio capitale del progresso tecnologico è che si limita a considerare i suoi incidenti di percorso, le sue rovine, i suoi disastri come semplici «fallimenti», senza mai pensare che forse non si tratta tanto di trovare nuove soluzioni ma di rivedere le proprie ambizioni.
Così Archivio Zeta ci raccolgono nell’intimità delle Moline, come un consesso di non-nati in attesa di farsi carne, sangue e nervi.
Uno spettatore alla volta, ritualmente, Enrica Sangiovanni appende al collo una tavoletta di cera, dalle onde e le screpolature rapprese in una sottile maglia di metallo: ci offre un’anima. Sembrano dei palinsesti (le pergamene cerate su cui si scriveva e riscriveva, raschiandole – la famosa tabula rasa – e ricolandole); emanano un profumo pungente di propoli, rimasticamento laborioso e organico di una collettività.
C’è insomma un richiamo a un senso del tempo e della techné arcaico. Questa «piazzista di anime», come la chiama Massimo Marino, effettivamente ci tenta con la vita, ma ci mette anche in guardia, a suo modo, dalla cultura degli uomini, una cultura che nei secoli ha accumulato e consolidato pregiudizi, incomprensioni, falle insanabili, vizi di forma.
In questa anticamera della (ri)nascita, tra estratti di Levi e scrittura originale, Archivio Zeta ci chiamano a osservare noi stessi da un punto di vista contemporaneamente macro e microcosmico: siamo particelle elementari e aggregati, ci muoviamo per libero arbitrio e in ottemperanza a leggi fisiche—non possiamo prescindere dall’universo.
E così il continuo ricorso a una tecnologia artigianale (dai materiali plastici alle videoproiezioni in Super8, alterate con acidi su pellicola) sposata a un’evocazione puramente teatrale (che si appella all’immaginazione, libera, dello spettatore, senza appoggiarsi al didascalico-decorativo), questa chimica cosmica di Vizio di forma sollecita in noi una nascita, cioè un venire e uno stare al mondo che sia atto consapevole, responsabile, e soprattutto sensibile a quello stesso mondo cui siamo inestricabilmente connessi.
Accetto, ma vorrei nascere a caso, come ognuno: fra i miliardi di nascituri senza destino […] ogni uomo è artefice di se stesso: ebbene, è meglio esserlo appieno, costruirsi dalle radici. Preferisco essere solo a fabbricare me stesso, e la collera che mi sarà necessaria, se ne sarò capace; se no, accetterò il destino di tutti.
Il cammino dell’umanità inerme e cieca sarà il mio cammino.
— Archivio Zeta Vizio di forma