“Non siamo certo inesperti di sangue, noi!”. Parole, pesanti come le pietre tombali qui deposte, accolgono i primi passi su questo lembo di terra essenziale e benedetta. Come un’eco, si spandono sui cieli della Futa; come vibrazioni sbattono sulle lapidi bianche degli oltre 36000 caduti tedeschi – tutte in fila, tutte uguali a perdersi a vista d’occhio – e si mescolano al vento che soffia costante. Il Cimitero Militare Germanico impone un silenzio che non si dimentica e le parole di Pilade (Gianluca Guidotti) si aprono, si dilatano, cadenzate e dilanianti, schiacciano la Storia su se stessa, riconoscendo solo le vittime, né vincitori né vinti, e in questo ossario di giovani membra sembrano trovare coesione e verità.
“Pilade/Boscocimitero” inizia con una bomba sganciata nell’ovatta e prende la forma a spirale del teatro naturale scelto ancora da Archivio Zeta, teatro di parola, di verità e di sostanza. La compagnia ha scorporato il “Pilade” di Pasolini, opera scritta dal 1966, in quattro drammaturgie distinte e definite; l’episodio messo in scena alla Futa (fa seguito a Monte Sole e alle Saline di Volterra) raccoglie l’inizio e la fine del testo originario, in un incastro perfetto di poesia e distruzione. L’analisi del mito è portata a fondo e attualizzata, in pasoliniana maniera, e al tempo stesso scarnificata da parole e connessioni complesse; è un essenziale raccordo di pensieri e suggestioni, che stimolano la fantasia e il sentimento del pubblico attento.
Pilade ci conduce tra le tombe fino alle porte di un’immaginaria Argo, facendo risuonare il suo grido a ricordo di una salvezza concessa a nessuno, di una purezza persa a colpi di vita. La narrazione si apre sulla trasformazione della città da parte di Atena; la dea della ragione nata dalla testa del padre, che non conosce i propri genitori, né ha ricordo del grembo materno, così come del passato – “non ha ricordi, sa soltanto la realtà, ciò che essa sa, il mondo è”. Sarà lei, sostenuta da Oreste che le deve la vita, ad aprire una nuova era di potere democratico (ben presto borghese) e crescita collettiva (ben presto incontrollabile e avida) e a fare di Argo la nuova città del futuro, illuminata dalla luce della Ragione, in cui le Furie prendono le sembianze di Eumenidi e la follia dettata dalla paura si trasforma nella follia feconda del sogno.
Sulla scena, tra le tombe e le mura spesse e circolari che culminano sul colle e sulla casa scura di pietre e bandiere, Atena (Enrica Sangiovanni), con un lungo mantello bianco, si sdoppia in un gioco di voci nel dialogo con Pilade e con la bambina presente (Antonia Guidotti), di rosso vestita, caparbia e dinamica (forse una giovane Atena). Gli scambi avvengono a grande distanza: lo spettatore è chiamato ad abbracciare la carneficina e la pace con uno sguardo, ma in cambio le parole diventano ancora più potenti e vicine, grazie a un eccellente sistema di diffusione del suono (sono distribuite delle cuffie durante il cammino). Il racconto è affidato ad Atena, fredda e cinica, e allo smarrimento di Pilade “l’obbediente, – il silenzioso, il discreto, – il timido, Pilade, nato per essere amico”, antieroe diverso e “dotato di una misteriosa grazia” che non riesce ad adeguarsi al progresso dettato dalla Ragione.
Un montaggio sonoro in crescendo segnala il cambio di atto: la partitura incalzante di Patrizio Barontini, la voce registrata di Pasolini e il twist della Ricotta. Si ricomincia a camminare, passando sotto le bandiere che sventolano e protestano: c’è anche una bandiera greca tesa al vento, sotto a quella dell’Europa e accanto a quella tedesca, innalzata da Pilade/Guidotti nel ricordo delle radici continentali e della farsa contemporanea. Nel cuore di Argo, nel cuore del cimitero e sotto l’ala, la pinna che svetta su di esso, tagliando in due il cielo, si consuma la sconfitta di Pilade, incapace di accettare la trasformazione del mondo, incapace di adattarsi e la sua lotta con Oreste (alter ego di Atena, interpretato dalla Sangiovanni), un tempo amico. Continua a vagare, colpevole della sua stessa innocenza, e neanche la freschezza e il sonno sfinito del giovane ragazzo (Elio Guidotti), che ha concluso il suo cammino al centro del paese, gli portano consolazione. Ciò che resta è solo l’incertezza e la disperazione del poeta, esasperata dallo straziante “Lascia ch’io pianga” di Händel sul finale.
Il quadro d’insieme è potente e immaginifico e poco importa se si rischia di perdersi nello stacco netto tra le due parti dello spettacolo. “Pilade/Boscocimitero” trasuda lirismo, emozione e sprazzi di una contemporaneità asfissiante e Archivio Zeta ha il merito di chiamarci tutti in causa, alla protesta mite, a combattere “la ragione con la non-ragione”, nel centro del sacrario, sulla sommità di un’agorà ricostruita con la forza delle parole. Pilade è Pasolini, Pilade è ognuno di noi, abbandonati al futuro, con la lucidità senza scampo del presente, folli, insaziabili e soli.
“(…) Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.”
(da “Poesia in forma di rosa” di Pier Paolo Pasolini)
Foto: Franco Guardascione
Giulia Focardi 16/08/2015