Chissà se i mostri sono nati per far costruire labirinti, o i labirinti sono stati eretti per seppellirvi i mostri? Chissà se mostri e labirinti sono stati immaginati per rinchiudere in spire indistricabili le nostre paure o per erigere monumenti alla complessità che apre sempre lo sguardo sull’abisso della paura? Julio Cortázar immaginò una sua romantica soluzione a questi dilemmi e, come usava Borges, che ammirava non poco, la diffranse in un gioco di specchi e echi nel poema drammatico I re. Grazie al teatro di Archivio Zeta, Minosse, Arianna, Teseo e il Minotauro rivivono ora, fino al 20 agosto, tutti i giorni alle 18, in quel labirinto che è il Cimitero militare germanico del Passo della Futa, tra l’Emilia e la Toscana. Con Il Minotauro. nel labirinto di Julio Cortázar.
Da molti anni la compagnia ormai naturalizzata bolognese sceglie agosto per presentare uno spettacolo in quello scenario unico, luogo di stridenti memorie che dà riposo a circa 36.000 soldati tedeschi morti per lo più negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale. È un luogo di pietà, dove sono raccolte le spoglie degli invasori d’Europa, in questo caso molti giovanissimi, adolescenti, mandati a morire negli estremi mesi del conflitto da un regime agonizzante in terra d’Italia. Luogo di ricordi di ferocia e di pace, con le lastre tombali che seguono il pendio della collina in campetti segnati da camminamenti di pietra, in un’ascesa a spirale che ricorda la forma del labirinto. Intorno ascolti la pace dei monti, turbata solo dal vento e dai rombi di qualche moto da cross a distanza. Luogo che raccoglie il mostro della guerra, lo racchiude e lo rinchiude, lo offre a una meditazione che forse può liberare.
Così il testo di Cortázar nasce proprio con l’intento di rovesciare il mito del Minotauro: questi è recluso dal re Minosse per affermare il potere regale su tutto ciò che la ragione non controlla. Sulla natura naturale, animale, prima di tutto, quindi sul desiderio della madre Pasifae per il toro, l’animale (Dioniso forse, la natura selvaggia?). Poi sui sentimenti di amore e fratellanza che dominano in Arianna. In questo, il re si specchia perfettamente in Teseo, l’altro re, l’eroe venuto ad accompagnare gli ateniesi portati in sacrificio non per morire, lui, ma per combattere e vincere un nuovo mostro, lui, il debellatore di creature fuori della norma dell’umano.
Se Minosse è tanto agitato dal Mostro da averlo richiuso, reso inaccessibile, pure rivedendolo ogni notte nei sogni, Teseo è sicuro che gli esseri difformi che minacciano la congruità umana – il canone, la serialità, l’omologazione potremmo dire – con un po’ di muscoli, di coraggio e di ragione si possono abbattere. Scopriremo che Arianna fornisce il filo all’eroe sbruffone, oltracotante alfiere di una razionalità rigida, solo per ritrovare la sua propria strada verso il fratello. Scopriremo che i giovani condotti nel labirinto, lungi dall’essere divorati, trovavano nelle spire del labirinto un’altra libertà. Scopriremo che il diverso, il mescidato, l’uomo-animale è vita, è l’essere prima che siano eretti muri che lo allontanino da sé, dalla sua natura.
Arcihivio Zeta in questo luogo da anni organizza spettacoli (qui una rassegna stampa), offrendo uno dei pochi richiami teatrali del mese di agosto, realizzando una propria poetica dello spazio come collaboratore alla lettura e interpretazione di una storia, di un dramma, facendo un teatro civile in senso pasoliniano, in cui con la parola si analizzano nodi oscuri del vivere associato. Ha messo in scena prima tragedie greche, facendo risuonare antiche parole segnate da sentimenti di odio e di vendetta o, viceversa, intinte nel bisogno di stabilire nuovi orizzonti umani. Ha frequentato autori novecenteschi come Kraus e Pasolini, sempre con l’urgenza di dare a parole poetiche il senso di una riflessione sul presente. È andato a Shakespeare e ora torna a un mito antico, rinarrato però da un autore del ‘900.
Archivio Zeta distende Cortázar in vari quadri, in campi lunghi o in scene a stretto contatto con gli spettatori. Minosse è il primo ad apparire, interpretato da un Ciro Masella che sembra in lotta con i due volti del personaggio, il re solenne, potente, e l’uomo che teme forze che non sa dominare. L’attore è maestro nel modulare la dizione tra momenti di forte presenza e tremori, tormenti, debolezze che premono e vengono contenuti, creando dissonanze, strozzamenti e stridori di voce. Il labirinto è segnato sulla sua veste grigia, drappeggiata di rosso, come quella di Arianna, con forti richiami figurativi. La sua voce in alcuni passaggi è confidata a una grande conchiglia piena di circonvoluzioni. Nella seconda scena, dopo l’apparizione di una donna con due vasi a forma di serpenti in campo lunghissimo, in un altro ambiente del Cimitero, una porta divide Minosse dai sogni, diversi, di Arianna, specchio del fratello. Una porta di ferro, che si riempie dei clamori che urgono nei personaggi, nella bella e sorprendente sonorizzazione e musica di Patrizio Barontini.
Teseo si manifesterà, con i suoi pugnali, su un vialetto di pietra in salita, col pubblico assiepato, in dialogo fitto con il suo specchio re; in un altro quadro otterrà da Arianna il filo da srotolare fino al cuore del sacrario del Cimitero, dove sorge la vela o ala spezzata dominante la costruzione che pare disegnata dallo scenografo Adolphe Appia in contemplazione di fantasmi nibelungici wagneriani. Là, nello spiazzo del sacrario, si avrà lo scontro col mostro, solo voce, e la rivelazione. Non si può andare oltre a raccontare, ma la morale è chiara, attraverso i testi fulgenti, sorprendenti, parole letterarie scagliate a richiedere attenzione, concentrazione, fantasia, pensiero, pur nel caldo vacanziero d’agosto. I mostri sono nascosti in quei labirinti che sono le nostre interiorità: e là si trova la paura, l’ossessione, il bisogno di combattere, distruggere il diverso, o la voglia di comprendere, di srotolare il filo per ritrovare una strada, di liberare, di abbattere le mura di cemento, di pietra, di tufo, di ferro, comunque fatte per occludere, per separare dalla libertà dell’aria e del mare.
Archivio Zeta non fa sconti alla letterarietà delle parole; non fanno sconti Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti nel declamare per far risaltare i nessi, o sgangherarli e rivelare qualcosa d’altro. Il testo diventa corpo nello spazio. Ti prende, ti trascina, ti riporta al fuoco centrale: quello che chiede di scrutare con telescopio, e poi rovesciare dall’altro lato il binocolo, e usare lente d’ingrandimento o grandangolo o specchio, cento specchi deformanti, per fare una sola cosa, guardarsi dentro e, dall’interiorità, rivolgere di nuovo lo sguardo attorno.
Grazie a questi monti freschi anche nell’estate più infuocata. Grazie a questi artisti che si conquistano il loro pubblico, con pochissimo sostegno. Grazie al loro credere nella famiglia d’arte, con la piccola Antonia, la figlia, che interpreta un’altra Arianna, bambina, moltiplicando oltre gli spazi anche i tempi mentali della storia, e al figlio Elio, il citarista, che introduce il ballo finale, un tango naturalmente, Java, un tango di libertà scritto dalla stesso Cortázar, con la musica di Edgardo Cantón.
Al Cimitero militare germanico del Passo della Futa fino al 20 agosto, ore 18. Prenotazioni qui.
Fotografie di Franco Guardascione