PASSO DELLA FUTA – “…di non partire più e di non obbedire per andare a morire per non importa chi. Per cui se servirà del sangue ad ogni costo andate a dare il vostro se vi divertirà. E dica pure ai suoi se vengono a cercarmi che possono spararmi io armi non ne ho”. (Boris Vian, “Il disertore”)
Il luogo è magico e fa sentire piccoli ed indifesi. Sopra un colle dove sbatte sempre forte il vento ci si sente come quelle povere bandiere, simboli flaccidi e sgualciti di confini e frontiere minuscoli, e falsi ed inesistenti, in confronto al globo, a paragone dell’universo o ancora di più davanti al mistero dell’esistenza. Si impallidisce dall’alto osservando tutti quei quadrati bianchi che sembrano passaggi in travertino in un qualche giardino zen e che invece contengono ossa di giovani tedeschi mandati al fronte. Più di trentamila. Qui. Tutti insieme. Fanno rumore in questo silenzio naturale. Cento anni fa iniziava (1914) la Prima Guerra Mondiale. Non contenti ne seguì un’altra.
Tutto intorno il verde del Mugello, il Passo della Futa tra Toscana ed Emilia Romagna, a cavallo tra il passato ed il presente, il senso della vita e della morte. Per cosa si muore? Per spostare una linea sul mappamondo? Milioni di morti hanno portato la pace? In alcune zone del pianeta si, in molte altre siamo ancora al punto di partenza. E’ qui che da oltre dieci anni gli Archivio Zeta (protagonisti della performance collettiva “La ferita” durante l’ultimo Volterra Teatro), Enrica Sangiovanni (voce profonda) e Gianluca Guidotti (volto ottocentesco), con alcuni “non-attori” (ormai nelle loro produzioni da molte stagioni) conducono la loro battaglia artistica antibellica. Certo il luogo questa riflessione la impone ma è la costanza, la resistenza, la caparbietà del duo che alimenta la discussione, che incentiva un pensiero, che argomenta l’idea. Hanno portato migliaia di persone ogni estate a visitare un luogo che in qualche modo faceva paura ed incuteva un timore reverenziale, perché c’erano cadaveri, perché erano tedeschi, una distanza imbarazzata e vergognosa su un tema da nascondere nel ripostiglio dei ricordi dei nonni senza farci più i conti.
Il merito degli Archivio Zeta è sempre stato quello di contestualizzare da un lato dicendoci che la guerra non ha limiti né confini, che può ritornare ed è presente, basta accendere un qualsiasi telegiornale, mostrandoci anche che le conseguenze di mortai o kalashnikov a qualsiasi latitudine la soluzione è la stessa, dall’altro decontestualizzando il testo ed immergendo il Mito greco (I Persiani, Sette contro Tebe, Agamennone, Prometeo incatenato, Orestea, Eumenidi, Coefore di Eschilo, Iliade di Omero, Antigone, Edipo Re di Sofocle) o quest’ultimo “Gli ultimi giorni dell’Umanità” di Karl Kraus in un’atmosfera atemporale talmente irreale da risultare pregnante, viva, ancora parlante e raccontante. Come la vita, nonostante i progressi dell’uomo, sia rimasta la stessa, anche la morte, nei millenni e nei milioni di anni, porta ancora lo stesso dolore e sofferenza.
Ed in queste tombe schiacciate a terra, bianche e candide come l’età di colore che adesso stanno sdraiati sulla collina, non c’è mostra di sé, non esiste presunzione o arroganza di issarsi al cielo come minuscola torre di Babele a forma e somiglianza di croce. C’è, all’opposto, la tentazione di farsi ancor più, se possibile, vicino al suolo, tornare terra, erba, natura, quello da cui veniamo, ciò di cui siamo fatti (oltre i sogni), quello che torneremo ad essere, in qualunque dio crediamo. L’intento degli A.Z. è un teatro civile che esporti, o tiri fuori dalla cassa toracica di ognuno di noi, una coscienza, un modo di vivere più rispettoso, una più generale laica considerazione del perché siamo al mondo. Il loro cammino, del resto, ci dice questo. Hanno scelto la zona di campo dove albergare da Curzio Malaparte a Bertold Brecht, da Don Milani a Mario Luzi, da Italo Calvino a Franz Kafka, Da Cesare Pavese a Primo Levi. Non ci si può sbagliare. Questi non sono dettagli, ma scelte di fondo, di vita artistica, professionale, esistenziale. Di fondo.
Ancora un viaggio intermittente tra l’ascolto dei passi nell’erba e sul ciottolato e le fermate di questa via crucis itinerante accompagnati da due signori-corvi-Ciceroni timburtoniani in nero, l’ottimista ed il pessimista, che dissertano amichevolmente su benefici e colpe, su prospettive e spiegazioni. Siamo in un campo di battaglia ancora fumante. Abbiamo tutti perso. Ed i bambini strilloni che intonano il loro canto straziante “Edizione straordinaria” come fosse un gioco, quello stesso straordinario, la guerra, che diverrà ordinario e consuetudine, normalità e quotidianità e che gli toglierà il futuro e la serenità di crescere. La Linea Gotica (il progetto teatrale degli Archivio Zeta prende proprio questo nome) sottolinea la stupidità dei nazionalismi, la banalità del male, la pochezza delle guerre sante, l’insensatezza degli stermini (vicinanza in questo con la recente piece “Il popolo cattivo”, produzione Guascone Teatro). Che la pace sia solo la tregua, più o meno lunga, tra due guerre? Da una parte si inneggia alla guerra come pulizia in un bel bagno di sangue corroborante, come purificazione, benedizione per le virtù di un popolo per rafforzarlo.
La scena degli alunni a scuola con la maestra che insegna loro l’ardire e l’onore patriottico ci porta tra Pinocchio e De Amicis non trascurando “La classe morta” kantoriana. Prima di arrivare alle lettere luttuose dal fronte, la toccante esecuzione di Cesare Battisti, mentre avanza in audio, nel silenzio del tramonto, la voce di Luca Ronconi a trafiggerci senza scusanti e maschere antigas indossate dagli attori ci fanno capire chi sopravviverà in caso di conflitto. “Dove sono i generali che si fregiarono nelle battaglie con cimiteri di croci sul petto, dove i figli della guerra partiti per un ideale per una truffa, per un amore finito male. Hanno rimandato a casa le loro spoglie nelle bandiere legate strette perché sembrassero intere. Dormono, dormono sulla collina” (Fabrizio De Andrè, “La collina”)
“Gli ultimi giorni dell’Umanità” di Karl Kraus, a cura di Archivio Zeta. Regia e drammaturgia: Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti. Con: Giulio Azzoguidi, Renata Carri, Antonia Guidotti, Elio Guidotti, Gianluca Guidotti, Tommaso Moncelli, Giulia Piazza, Alfredo Puccetti, Andrea Sangiovanni, Enrica Sangiovanni. Una Voce dall’alto è Luca Ronconi. Partitura sonora: Patrizio Barontini. Visto al Cimitero Germanico della Futa, Firenzuola (FI), il 7 agosto 2014. Repliche fino al 17 agosto.
(crediti foto di Franco Guardascione)