DALLA FISSITÀ AL MOVIMENTO: SI APRE LA SECONDA PARTE DE LA MONTAGNA INCANTATA

LA MONTAGNA INCANTATA – foto di Franco Guardascione

Al Berghof, sospeso tra cielo e terra, i pazienti del sanatorio sembrano averci aspettato immobili nello scorrere di tutti questi mesi, impegnati nei quotidiani riti propiziatori di una guarigione impossibile, tra esercizi ginnici e esami diagnostici, nelle grinfie di medici e infermieri che sembrano essersi sostituiti al libero autodeterminarsi dei pazienti. Lo spaziocontinua a misurare il tempo ma tra le maglie di quella fissità che ha finora caratterizzato la vita di Hans Castorp e dell’intero gruppo si inserisce finalmente quel trait d’union capace di provocare una svolta nel lento incedere degli eventi. Qualora lo spazio cambi nel tempo nasce il movimento, non solo fisico ma anche mentale e spirituale. Riuscire a vedere la realtà da una posizione altra apre la strada allo spirito critico, alla consapevolezza delle sfumature. Altra come la filosofia del gesuita Leo Naphta, il nuovo personaggio che in apertura di rappresentazione fa il suo ingresso, materializzandosi dalle pagine del romanzo e raggiungendo gli altri sul piano della drammaturgia, così come l’attore dal fondo si sposta in linea con gli altri interpreti – trovata scenica efficace e puntuale. Se Joachim Ziemssen, cugino di Castorp, pare refrattario alle disquisizioni antroposofiche spesso inconcludenti di Naphta e Settembrini, interessato solamente a riprendere la sua carriera militare, Castorp ne resta affascinato e letteralmente imprigionato.

LA DICOTOMIA DANZANTE DI SETTEMBRINI E NAPHTA

LA MONTAGNA INCANTATA – foto di Franco Guardascione

Come dei peripatetici, supervisori e testimoni nell’alternarsi delle vicende, i due intellettuali sembrano costituire un doppio perno su cui si regge tutto l’equilibrio dello spettacolo. Umanista e razionalista l’uno, portavoce di nichilismo reazionario e incendiario l’altro, con le loro schermaglie spesso si concentrano sul tema della malattia, nemica da combattere con la scienza e con la ragione affinché non riduca l’uomo a mero corpo, come sostiene l’italiano, o metafora della vita tutta, come crede Naphta: se essere uomo significa essere malato, chi lo volesse guarire non mira che a disumanizzarlo, ad abbrutirlo. Il pubblico, spesso accompagnato dal loro dibattere, ha la sensazione che stiano tessendo una tela che sorregge narratori e ascoltatori. Anche i loro movimenti e il loro dislocarsi nello spazio si accordano ad una danza speculare, in cui ciascuno è necessario contraltare dell’altro, ingaggiando un conflitto che se da una parte è anche armonia di opposti, dall’altra potenzia l’aspetto soffocante e stagnante del contesto: niente cambia mentre tutto cambia nello spazio-tempo immobile e circolare del sanatorio incantato, dove tutto sembra ripetersi senza via d’uscita.

LA MONTAGNA INCANTATA: LA SVOLTA DEL PROTAGONISTA

Nella vita di Hans Castorp la formazione intellettuale si accompagna fianco a fianco con l’esperienza amorosa, che sfiora la devozione per Madame Chauchat, partita per terre lontane ma sempre presente nelle emozioni. Proprio lei sarà infatti la co-narratrice nella poetica e altrettanto incisiva scena della sciata e del sogno del protagonista, in bilico sui suoi sci di legno che con una ingegnosa trovata scenografica diventano anche culla nel manto nevoso e punto di caduta in un climax drammaticamente esaltato dalla musica di Francesco Canfailla al violoncello, stridente e potente. Una lama di suono che sembra sferzare colpi precisi nelle orecchie, modulata dal vento che modella le montagne e le voci degli attori mentre Clavdia Chauchat muove la sua matita come una bacchetta magica in una dimensione onirica in cui la passione travolgente del sogno apre le porte alla vita, negando alla morte di impossessarsi dei pensieri (“L’amore per il prossimo è non concedere alla morte di dominare i propri pensieri”). E con lei si allontana anche la malattia, che scompare come il cielo plumbeo lascia spazio durante la rappresentazione ad un sole limpidissimo e potente che si appresta a tramontare. Non c’è più spazio per il camice bianco legato dietro la schiena e il protagonista si veste della sua sanità.

LA MONTAGNA INCANTATA: DISCESE ED ASCESE AL BERGHOF

LA MONTAGNA INCANTATA – foto di Franco Guardascione

Malgrado ancora malato, invece, Joachim Ziemssen è oramai inquieto fino alla disobbedienza e decide di lasciare il sanatorio per riunirsi al suo reggimento e compiere il suo dovere come soldato, in un’Europa che già brontola di fermenti di guerra. Castorp al contrario sente che il suo percorso non sarà compiuto fino al ritorno della sua amata, oggetto di uno sentimento platonico di devozione, ripagata infine quando Madame Chauchat farà nuovamente il suo ingresso al sanatorio. Ma non da sola. Al razionalismo di Settembrini e al dogmatismo di Naphta si affianca l’edonismo dissacrante e dionisiaco del suo accompagnatore Mynheer-Pieter Peeperkorn, un ricco possidente olandese perennemente ubriaco che oppone alla logica stringente degli intellettuali un flusso di coscienza sconclusionato e quasi canzonatorio, capace di divertire e di catalizzare l’attenzione degli astanti (“Signori…bene. Tutto bene. Chiuso, e non parliamone più. Ma prego di considerare e di non trascurare, nemmeno un istante, che…Ma lasciamo questo punto. Ciò che spetta a me di dire non è tanto questo, quanto piuttosto e soprattutto che abbiamo l’obbligo…[..]…No! Nossignori, non così! Non già che io…sarebbe grave errore pensare che io…Chiuso signori, chiuso e liquidato”). Un incedere inconsistente che sembra deridere ogni impegno argomentativo e cerebrale, ammantando le parole di una solennità capace di mascherare il nulla, anticipando con sinistra lungimiranza un’epoca in cui la solidità del pensiero verrà sostituita dall’efficacia demagogica di abili oratori. Con un abile gioco di sgabelli, gli attori in scena in questo quadro giocano alla ricerca del loro posto, continuando in quella danza che sembra onorare il movimento d’apertura. Un gioco quasi seduttivo in cui alla fine Clavdia e Hans riescono a trovarsi.

LA MONTAGNA INCANTATA: LA DRAMMATURGIA PROFETICA DI ARCHIVIO ZETA IN CHIUSURA

L’essenza della storia del primo Novecento si concentra negli ultimi due quadri muovendosi nella zona grigia tra rigore scientifico e tecnologico, nichilismo anti-progressista e incredulità mistica. Da una parte la tecnologia tedesca è in grado di proporre un affidabile strumento di riproduzione musicale, “cornucopia” di suoni, come il grammofono, spaventoso e minaccioso mentre domina la scena, come un automa, ma docile nelle mani dei personaggi, nelle quali si piega perdendo tutta la sua austera rigidità. Come il suono sembra incredibilmente provenire da una fonte nascosta, misteriosa, la stessa incredulità mista al “placet experiri” prevale durante la seduta spiritica della medium Ellen Brand. Come Bohr e Einstein avevano descritto la realtà nei termini di una “danza di energia immateriale”, l’occultismo sembra trovare in conclusione la sua dignità, giustificando la curiosità dei pazienti che assistono spaventati ma morbosamente interessati. All’interno del sacrario del cimitero lo spirito di Ziemssen viene evocato mentre le lettere giganti danzano – ancora il movimento è protagonista – per lasciarci con un monito che sembra un’esortazione: “sein”, essere. Come un’anticipazione dell’ultima parte della trilogia, la parola “guerra” sembra infine risvegliare dal torpore medianico i personaggi che la pronunciano con esitante stupore, quasi fosse il vento a suggerirla. Una profezia, quella dello spirito di Ziemssen, che ci penetra e ci esplode dentro, riportandoci alla consapevolezza del luogo in cui ci troviamo.

DRAMMATURGIA, REGIA E PERFORMANCE ATTORIALE NE LA MONTAGNA INCANTATA

Di fronte ad uno dei testi narrativi meno teatrali della letteratura moderna, Archivio Zeta ha saputo ancora una volta sviscerare il romanzo penetrando con grande abilità tra le pieghe delle parole, spremendole fino a ricomporre un quadro drammaturgico complesso e in evoluzione. Il cast si è rivelato nuovamente all’altezza dell’arduo compito, rinnovando un’intesa e una sintonia magistrali. Pouria Jashn Tirgan (Joachim Ziemssen) e Giacomo Tamburini (Hans Castorp) sembrano muoversi con un’inversione di ritmo, una polarità energetica opposta e armonica al tempo stesso, di cui il contrasto tra Montagna e Pianura, spesso evocata dai personaggi, sembra correlativo oggettivo. Enrica Sangiovanni, una civettuola e seducente Clavdia Chauchat, ha saputo giocare il suo ruolo centrale nel romanzo con la discrezione che lo stesso Mann in fondo le attribuisce, quasi un deus ex machina per il protagonista, ma con profonda efficacia. Altrettanto si può dire per Diana Dardi, che nei suoi molteplici ruoli – Signorina Engelhart, Superiora Von Mylendonk, Ellen Brand – ha espresso l’ironia e la singolarità di ognuno senza scadere nel caricaturale. Gianluca Guidotti e Giuseppe Losacco, rispettivamente Ludovico Settembrini e Leo Naphta, orbitano agevolmente l’uno intorno all’altro, una stella doppia in ottima sincronia, mentre Andrea Maffetti, nei ruoli di Peeperkorn e Behrens, si è divertito ed ha divertito con le stravaganze dei suoi personaggi, giocandoci con naturalezza e sapienza. Ottima la regia di Guidotti e Sangiovanni, profondi conoscitori della scenografia naturale e abili conduttori di una squadra attoriale capace di strappare in chiusura svariati minuti di applausi.

LA VITTORIA DEL “PUPILLO DELLA VITA” NELL’ECO DELLA GUERRA

Se la prima parte aveva esaltato l’ironia quasi irriverente di Mann, smascherando le contraddizioni dell’innovazione scientifica, schiacciata tra la cecità del positivismo estremo e il timore della modernità, questo secondo capitolo – che giunge in prossimità dell’epilogo – evidenzia la consapevolezza profetica a posteriori dello scrittore tedesco. All’interno del sanatorio, nonostante l’isolamento, sembrano delinearsi quegli scenari di guerra che già avevano scosso l’Europa al momento della pubblicazione del romanzo. Malgrado questo, si continua a sorridere in un mondo che non ha ben chiaro cosa lo aspetti, ancora abbagliato dalle luci e dai lustrini di una Belle Époque dove l’edonismo di Peeperkorn la fa da padrone. E nemmeno la logica implacabile di Settembrini e Naphta sarà sufficiente a risvegliare la consapevolezza, troppo avviluppata su se stessa ed impegnata nei suoi voli pindarici, tanto complessi quanto inconcludenti. E allora, come era stato per la prima parte, a vincere in questa ideale e ideologica lotta, è Castorp, quel “pupillo della vita” che resterà fino alla fine profondamente umano, sintesi perfetta tra salute e malattia, tra corpo e anima, anti-eroe dell’età moderna.

Visto al Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa (FI) il 5 agosto 2023