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La Montagna Incantata ci parla ancora

Paolo Randazzo | 13/08/2024 | Gli Stati Generali

Passo della Futa. C’è una parola che può sintetizzare sufficientemente il senso profondo di “La montagna incantata”, lo spettacolo tratto dall’omonimo capolavoro di Thomas Mann e realizzato dalla compagnia bolognese “Archivio zeta”: questa parola è “vertigine”. Lo spettacolo, nella sua terza parte, si è visto 3 agosto, nello spazio del Cimitero Militare Germanico al Passo della Futa nel comune di Firenzuola. Il lavoro di resa drammaturgica, la regia, la cura e ‘invenzione del rapporto scenico con i luoghi sono di Gianluca Guidotti e di Enrica Sangiovanni, in scena ci sono Diana Dardi (nei ruoli della Signorina Engelhart, della Superiora Von Mylendonk, di Ellen Brand e della Signorina Krylow), Antonia Guidotti (Infermiera e Cameriera), Giacomo Tamburini (Hans Castorp, il protagonista del romanzo), Pouria Jashn Tirgan (Joachim Ziemssen e Kasimir Japoll), Giuseppe Losacco (il Dottor Krokowski e Leo Naphta), Andrea Maffetti (il Consigliere aulico Behrens, Mynheer Peeperkorn, Stanislao von Zutawski e la presenza di cornice di un immaginario Thomas Mann) e infine gli stessi Guidotti e Sangiovanni (rispettivamente nei ruoli di Lodovico Settembrini e di Madame Chauchat, di Pribislav Hippe, Tous-les-deux, Jadwiga von Zutawska). A suonare dal vivo il violoncello c’è Francesco Canfailla. Perché dunque la parola “vertigine”? Perché, al di là del dato concreto e visibile della formalizzazione spettacolare che, nella straordinaria ampiezza di quel cimitero monumentale, avrebbe potuto trovare mille altre soluzioni, questo lavoro induce il pubblico a contemplare e a confrontarsi vicende e temi di vertiginosa profondità e perturbante vicinanza: il senso della storia (semmai si può ipotizzare un senso della storia), il rapporto – difficile e politico – tra storia e memoria, la presenza della morte nella vita e la malattia come stato di grazia e inevitabile medium di consapevolezza e di sapienza, l’assurda e feroce follia della guerra, lo scontro titanico e tragico tra razionalismo e irrazionalismo nel dispiegarsi pensiero occidentale. Tutti temi che si trovano, capitolo dopo capitolo, pagina dopo pagina, nel capolavoro di Mann (pubblicato nel 1924) e sui quali Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, nell’elaborare drammaturgia e regia di questo spettacolo, non possono non avere riflettuto profondamente e totalmente al presente. Non possono non essersi confrontati con la presenza di queste tematiche nella trama vivente della nostra contemporaneità: dalla condizione del lockdown (chiusura, separazione, esiziale minaccia della malattia, tangibile incombere della morte) dovuta alla diffusione e alla profilassi pubblica del Covid allo scoppio di guerre nuove e vecchie nel mondo globalizzato.E poi, il dialogo silenzioso, intenso, voluto e ricercato, mai banale, con la specificità storico-politica di quel luogo: un cimitero di trentamila soldati tedeschi della Wermacht morti per difendere la linea gotica durante l’aggressione nazista dell’Italia. Età media 20 anni. Un cimitero di uomini sconfitti dunque, un sacrario senza un filo di retorica guerriera o patriottarda di soldati che hanno combattuto dalla parte sbagliata, dalla parte dello stato nazista. E non importa per la definizione di un giudizio storico-politico quanto consapevolmente l’abbiano fatto. Si entra in quel luogo ed ecco che una visione tremenda ti afferra e toglie il fiato. Un cimitero realizzato nel 1961, sulla base di un accordo del 1955 tra lo Stato Italiano e la Repubblica Federale Tedesca, e disegnato dall’architetto Dieter Oesterlen, privo, come si diceva, di qualsiasi richiamo a concetti di patria, potenza, valore militare, eppure straordinariamente pensato in termini di pietas ed elaborato soprattutto dal punto divista del rapporto col paesaggio circostante. Basta riflettere, velocemente, anche solo sulle date per capire quanta densità di storia, di memoria (in alcune tombe si possono vedere ancora dei fiori freschi), di elaborazione profonda e critica della follia del nazismo e della guerra mondiale che ha questo regime colpevolmente determinato insieme col regime fascista italiano. Già perché è proprio questo ciò che rende interessante questo lavoro: non si tratta di una semplice traduzione drammaturgica di un grande romanzo del novecento (i sette anni di formazione umana, culturale e politica del giovane Castorp, a contatto con la malattia e la morte nel Sanatorio di Davos in Svizzera), ma di un potente lavoro di formalizzazione e in prospettivizzazione di un dialogo a più voci.La voce di Thomas Mann certo, quella dei due drammaturghi e registi contemporanei e quella ricca di senso e di interrogativi del luogo stesso in cui questo dialogo avviene (e avviene irripetibilmente, non solo perché parliamo di un evento teatrale, ma perché la voce di questo luogo si avverte profondamente). La guerra a cui fa riferimento Mann e che, con un potente tuono, richiama Castorp alla concreta e necessaria realtà della ferocia umana (altro che le elucubrazioni, astratte per quanto brucianti, di Settembrini, il massone illuminista e ottimista, e di Leo Naphta, l’intellettuale nato ebreo e convertitosi prima al cattolicesimo, come gesuita, e poi al marxismo) è la Prima Guerra Mondiale, i morti sepolti in quel cimitero sono invece i tedeschi sconfitti dagli alleati e dai nostri partigiani nella parte finale della Seconda Guerra Mondiale, gli spettatori di questo lavoro hanno in testa e nel cuore le notizie e le immagini della guerra in Ucraina, dei feroci massacri in Palestina, e di quanto di morte e distruzione quella che Hannah Arendt chiama “la banalità del male” riesce a produrre anche oggi un po’ in tutto il mondo. Il corto circuito artistico che ne deriva è voluto, è – appunto – vertiginoso ed è la qualità migliore di questo lavoro. C’è un altro elemento di questo spettacolo su cui val la pena di riflettere: si tratta della modalità in cui un’opera narrativa, in questo caso un grande romanzo novecentesco, viene rielaborata in forma teatrale: Guidotti e Sangiovanni non hanno voluto offrire una sintesi, un riassunto, una sinossi scenica del romanzo di Mann, ma non si sono sottratti nemmeno alla  interrogazione strutturale e cruciale che questo tipo di operazioni impone, ovvero se è possibile fruire autonomamente di uno spettacolo del genere senza conoscere in precedenza l’opera letteraria da cui è tratto.Un bel rebus che i due artisti risolvono inventandosi come figura di cornice un Thomas Mann che apre e chiude lo spettacolo riflettendo sulla sua storia, su quella sua opera, sul suo rapporto conflittuale con il Reich Nazista, mentre gli episodi del romanzo (il caotico momento del tè nel Sanatorio, l’uscita in slitta e la tempesta di neve, il duello tra Settembrini e Naphta e il suicidio di quest’ultimo, le ultime considerazioni del protagonista e la sua partenza per la guerra) sono ricostruiti non come episodi autonomi, ma come segmenti pregni di senso di un’azione teatrale giustamente unica che è l’acquisizione di consapevolezza da parte di Castorp: l’umanità nella sua essenza più profonda non può prescindere dalla contaminazione con la malattia, con la morte, con la violenza della sopraffazione bellica. Una consapevolezza che è sapienziale e che, se pur fragile, sarebbe densa di futuro se non fosse inevitabilmente spazzata via dall’irrompere della altrettanto concreta realtà (umanissima e disumana insieme) della guerra.

 

 

La montagna incantata – Terza parteDal 2 al 18 agosto 2024, nel Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa (FI). Liberamente tratto dal romanzo di Thomas Mann. Drammaturgia e regia di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni. Partitura musicale di Patrizio Barontini. Con Diana Dardi, Antonia Guidotti, Gianluca Guidotti, Pouria Jashn Tirgan, Giuseppe Losacco, Andrea Maffetti, Enrica Sangiovanni, Giacomo Tamburini. Al violoncello Francesco Canfailla. Scenografia, costumi, oggetti di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni. Invenzioni e tecnica Andrea Sangiovanni. Assistenza canto corale Gloria e Giovanna Giovannini. Assistenza coreografia Carolina Giudice. Foto di scena Franco Guardascione Ufficio Stampa Francesca Rossini – Laboratorio delle parole, in collaborazione con Isabella d’Amico & Valeria Frasca Agency. Produzione Archiviozeta, con il contributo di MIC Direzione Generale Spettacolo, Regione Emilia-Romagna. Con il patrocinio di Città Metropolitana di Firenze, Unione montana dei Comuni del Mugello, Consolato Generale della Repubblica Federale di Germania a Milano

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