Incantati, nella Montagna, con Archivio Zeta
Massimo Marino | 01/08/2024 | Doppiozero
Teatro di Marte. Karl Kraus scriveva che il suo Gli ultimi giorni dell’umanità era uno spettacolo teatrale non per questa terra, da rappresentarsi in un Teatro di Marte. Raccontava, in oltre cinquecento pagine, la guerra, la Grande Guerra, con le parole dei giornali, con lo sciocchezzaio da caffè, con i proclami ufficiali e con le paure private. Teatro di Morte, teatro spropositato all’umano. Qualche anno fa Archivio Zeta ha rappresentato una riscrittura da quel testo (leggi qui) al Cimitero militare germanico del Passo della Futa, il luogo dove giacciono più di 30mila soldati e graduati tedeschi morti nell’ultimo conflitto. Giace seguendo il declivio di una collina costellata di scabre, ordinate lastre tombali, che culmina in un monumento di pietre di diverso colore, un’ala ripiegata dal volo, con due spiazzi e una cripta, terminato dall’architetto Dieter Oesterlen di Hannover nel 1969. Dal 2003 in quel sito la compagnia bolognese fondata da Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti tutte le estati rappresenta uno spettacolo dalle tinte cupe. Abbiamo visto tragedie greche, sulle origini violente della nostra civiltà, tragedie shakespeariane, riflessioni contemporanee nel nome di vari autori, Kraus ma anche Dostoevskij e Heidegger. Parole di un teatro di forti contrasti e sentimenti hanno risuonato tra quelle tombe, in quel luogo della furia e della meditazione, nel Cimitero che Archivio Zeta ha raccontato anche in un libro autoprodotto, intitolato appunto Teatro di Marte. Il Cimitero militare germanico della Futa, una riflessione storica e filosofica (si può acquistare sul web, a questo indirizzo)
Più volte ho raccontato queste meditazioni estive in forma di spettacolo tra il vento leggero dell’Appennino e gli odori di erbe. Ma quest’anno il solito lavoro, dai toni pensosi, grotteschi, civili, visionari, assume una forza diversa. Fino al 18 agosto sarà rappresentata la terza parte della Montagna incantata, dal romanzo di Thomas Mann, pubblicato dopo una lunga gestazione nel 1924, cento anni fa. Di recente abbiamo rivisto le prime due parti di questo impegnativo lavoro a Bologna in un altro luogo non teatrale, anomalo, risonante, nell’ala monumentale dell’Istituto ortopedico Rizzoli, sulla collina di San Michele in Bosco. La storia di Thomas Mann racconta del giovane ingegnere navale Hans Castorp, che prima di iniziare la professione va a trovare il cugino, affetto da tubercolosi, nel sanatorio di Davos, tra i monti della Svizzera. Tra le pareti di quell’ospedale e nei territori circostanti rimane, come rapito, incantato, per svariati anni, sospendendo il tempo, rimandando l’ingresso nella vita adulta, mentre sull’Europa si addensano le nuvole nere dell’odio e della guerra. Il romanzo ritrae un mondo sull’orlo dell’esplosione di contrasti insanabili in una guerra distruttiva. E lo fa dalla prospettiva marginale, ‘protetta’, del sanatorio, nelle passeggiate, nelle discussioni accanite tra i personaggi, che incarnano differenti concezioni del mondo, nella seduzione del volto di una signora russa che affascina l’eroe come la Venere del Venusberg, il monte dove la dea si è ritirata secondo una leggenda dopo l’arrivo del cristianesimo, nei ragionamenti, nei conflitti, nelle sedute terapeutiche, nelle sperimentazioni medicali su quei polmoni rosi dalla malattia, nella dilatazione del tempo svuotato dagli orologi, nella paura di un mondo minaccioso. Teatro di Morte – Teatro di Marte.
Ma mai come quest’anno il luogo, le parole, le azioni teatrali assumono un’eco particolare, sinistra (l’anno scorso ho mancato questo che ormai si può considerare un rito dell’estate: confrontare le diverse corrispondenze nell’archivio di doppiozero.com e in particolare, sulla prima parte del progetto).
In questi tempi feroci, mentre due guerre devastanti impazzano nel mondo, e sono solo le più narrate dai media in un globo dove i produttori di armi non smettono di mietere con i loro commerci esistenze umane, tutto assume un’aria particolarmente sinistra. Cammini con timore su quel terreno, senti, quanto più la storia si snoda nel Cimitero, la presenza dei corpi sepolti di quelli che andarono per conquistare e guadagnarono un loculo di terra.
Lo spettacolo non inizia, come le altre volte, dal basso. Gli spettatori, in questo rito itinerante, vengono subito portati in cima, in uno degli spiazzi del monumento di pietra, sotto quella che appare un’ala ripiegata o forse una vela funebre. Il pubblico viene proiettato nel sanatorio quando ormai Castorp vi si trova da vari anni. E tutto tra i ricoverati sembra degradarsi, i rapporti paiono diventare di odio per futili motivi; si accendono liti, scontri perché il tè è troppo freddo o troppo caldo, tra i tavolini del bar, con il sottofondo di un’insidiosa musichetta che ricorda i film d’inizio Novecento, mentre gli attori, una bella nutrita compagnia formata in gran parte di giovani, siedono all’inizio compassati, per abbandonarsi sempre di più a una convulsa rissa da film muto. Con intelligente anacronismo Patrizio Barontini, curatore della parte musicale e compositore, accoglie il pubblico in quell’atmosfera inizialmente distesa, ovattata, con Midnight, the Stars and You di Harry M. Woods, Jimmy Campbell and Reg Connelly, un foxtrot del 1934, usato però da Kubrik nell’hotel di Shining.
Tutto diventa già, dall’inizio, prima ancora dello scontro di tutti contro tutti, garbato e inquietante.
Il pubblico viene spostato nell’altro spiazzo custodito tra le pietre del monumento, più in basso, e in una scena in silhouette nere, con gli attori illuminati in controluce dal sole declinante ‘puntato’ sugli occhi del pubblico, assistiamo, durante una gita, a un ulteriore scontro dialettico, tra i due amici e mentori di Castorp, Settembrini e Naphta. Il primo sostiene le ragioni dell’umanesimo illuminista e crede nelle sorti progressive dell’umanità; il secondo è un gesuita rincartocciato, adoratore del Medioevo e della Rivoluzione, che disprezza ciò che sta in mezzo e non crede nella possibilità di evoluzione umana. Sono i due poli dialettici del romanzo, minati all’interno dei loro credo da contraddizioni, poiché Settembrini ha fede nel patriottismo nazionalistico e il tradizionalismo individualistico di Naphta sfocia in concezioni vicine al terrorismo nichilista. Mirabile è la sintesi che i due registi, anche autori della riduzione del testo, riescono a fare, enucleando in poche frasi contrasti che nel libro si svolgono per decine di pagine.
Lì, in quell’abbagliante controluce, le contrapposizioni si fanno irrimediabili e i due finiscono per sfidarsi a duello. Intanto dalla scena del bar a qui abbiamo sentito vari interventi di sonorità elettroniche, elaborazioni e montaggi da Shostakovich, l’inizio della Quarta sinfonia di Mahler, ed è apparso il violoncello di Francesco Canfailla che ha introdotto il tema di Gutenacht dal Winterreise di Schubert. Questo ciclo di Lieder con il suo viaggio in un inverno che è desolazione dell’anima è riapparso varie volte già nelle parti precedenti della traduzione teatrale del romanzo in particolare con rielaborazioni da Der Lindenbaum, il quinto Lied, il tiglio, l’albero spoglio nel gelo innevato che rievoca i giorni d’estate e invita il viandante a stendersi ancora sotto il suo abbraccio, nel ghiaccio dell’inverno di mortale oblio.
Inizia la discesa a valle. In piedi su un muro lunghissimo, sotto il quale si sistema il violoncellista, Settembrini e Naphta si sfidano a duello. Non con le spade, con le pistole. E dato che l’umanista non vuole sparare e punta la canna del suo strumento di morte in aria, Naphta lo investe di contumelie, ma poi rivolge la pistola contro sé stesso e si uccide. Una detonazione deflagrante, amplificata dal campo lunghissimo della visione, in un montaggio spaziale che è grande virtù scenica di Archivio Zeta. Un atto estremo, una protesta contro un mondo che non entra nelle proprie concezioni? Un atto di autoterrorismo che evoca il tuono che incombe su quell’Isola separata dal mondo che è il sanatorio, lo sparo di Sarajevo, l’andare come pecore incoscienti al macello.
Il tuono avanza. Il tempo sospeso, rimandato, della montagna, del crogiolarsi nella malattia, viene spaccato dalla guerra. Più in basso, tra gli alberi, appaiono fantasmi che raccontano l’uscita di Castorp dal sanatorio, il suo trasformarsi in soldato tra i soldati, alla baionetta nel fango tra l’esplodere delle granate.
Gli attori, come spettri tra i tronchi degli alberi, hanno parti del volto coperte da mascherine, di quelle che venivano costruite da Anna Coleman Land come protesi per rimpiazzare parti del volto dell’umanità scempiata dei mutilati di guerra. In questo momento sentiamo forte la presenza di quei giovani o giovanissimi soldati morti nel 1944 e nel 1945, sepolti sotto di noi. Gli alberi del boschetto inferiore si popolano anche di quelle presenze. La terra ci sembra fremere. La gestualità di marionette cui abbiamo assistito in vari momenti ci rimbalza l’immagine di noi, pronti a precipitare, di nuovo, in quei crepacci di violenza insensata; magari solo contribuendo, con il silenzio, con l’indifferenza o addirittura con la partecipazione stolida, allo svanire della ragione e all’addensarsi delle tenebre della guerra.
Può poco un Thomas Mann dal ragionare brechtiano – che peraltro ha introdotto la pièce, ‘riassumendo’ i motivi fondamentali delle due parti precedenti – nel ricordarci come nel 1932 ricevette sul Mar Baltico, dove si era rifugiato presentendo i fuochi che avrebbero incendiato la Germania, una copia della Montagna incantata ridotta in cenere, annuncio del rogo dei libri e di ben altre sciagure.
Intanto il coro dei morti, mentre Castorp sfila con gli abiti da soldato e con una maschera antigas, ha intonato, straziante, corale, il Lied del Tiglio:
Am Brunnen vor dem Tore
da steht ein Lindenbaum…
(Alla fonte, davanti al portone, / vi è un tiglio; / disteso alla sua ombra, / facevo sogni d’oro. / Nella corteccia incidevo / tante dolci parole; / lieto o triste che fossi, / sempre la pianta m’attirava. // Oggi vi sono passato davanti / nella notte oscura, / al buio ho chiuso / ancora gli occhi. / E i suoi rami mormoravano, / come per dirmi: / vieni da me, amico: / qui troverai la pace! // Il vento freddo
mi soffiava in faccia, / mi volò il cappello dalla testa; / non mi voltai. Ora, varie ore di cammino / mi separano; / e ancora lo sento mormorare: / là troveresti la pace!). L’infinita seduzione della morte, quel senso insopprimibile dell’umanità a massacrarsi, ad autodistruggersi.
Se potete, vedetelo questo spettacolo. Visitate quel luogo unico dove si svolge, in un Appennino, quello tra Bologna, Firenze e Pistoia, dove si trovano altre opere eretiche di architettura, il castello eclettico di Rocchetta, la chiesa di Alvar Aalto.
La montagna incantata secondo Archivio Zeta è una discesa palpitante in ciò che brucia sotto di noi, attraverso la rilettura di un grande classico. Inizia tutti i giorni, fino al 18 agosto, alle 18, lungo i dimenticati tracciati della Linea Gotica. È proprio quel teatro civile e di parola che avrebbe voluto Pasolini, rinnovato da un’attenzione creativa agli spazi e alle azioni secondo modalità mutuate dalle invenzioni del Nuovo Teatro. È uno spettacolo insieme colto e molto popolare, che vi prende la pancia e fa scattare cortocircuiti non solo emotivi; fa ragionare, parlando di cento anni fa, sul presente.
Grazie anche alla compagnia degli attori, che oltre ai veterani Sangiovanni, in vari ruoli (tra i quali Clawdia Chauchat), e Guidotti (il loico Settembrini), schiera un bel gruppo di giovani attori, che in questo ensemble fuori dai canoni, che rischia in proprio, contando sul consenso del pubblico e molto poco sui pubblici contributi, stanno completando la loro formazione: Diana Dardi, Pouria Jashn Tirgan, Giuseppe Losacco (vari personaggi ma soprattutto un affilato, torvo Naphta), Andrea Maffetti (tra le altre parti, il “mago” Thomas Mann), Enrica Sangiovanni, Giacomo Tamburini (il giovane, smarrito Castorp, “riottoso figlio della vita”), Antonia Guidotti, con il violoncello di Francesco Canfailla, le maschere ridisegnate da Enrica Sangiovanni e le invenzioni e la tecnica di Andrea Sangiovanni.
Le tre parti della Montagna incantata si potranno rivedere in marzo, una di seguito all’altra, sul palcoscenico dell’Arena del Sole di Bologna per Emilia Romagna Teatro, in un allestimento ancora differente da quelli del Cimitero e dell’ala monumentale del Rizzoli: ogni volta gli spettacoli di questa compagnia cambiano, dialogando con gli spazi e con le loro suggestioni, a suggerirci anche un’attenzione al respiro vivente degli habitat.
In scena fino al 18 agosto alle 18 al Cimitero militare germanico del passo della Futa. Informazioni: www.archiviozeta.eu
Le fotografie, salvo indicazione differente, sono di Franco Guardascione.