Il teatro nella natura
Massimo Marino | 23/08/2012 | Corriere di Bologna
L’idea della piéce, in scena da oggi a domenica, è nata durante un laboratorio al liceo Minghetti
Hanno appena finito di recitare Eumenidi di Eschilo nel Cimitero militare germanico della Futa, uno spettacolo sorprendente, affascinante, di grande intelligenza, che mette in discussione le radici stesse della nostra democrazia. Ma Archivio Zeta, Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, non vanno in ferie: da oggi a domenica, sempre alle 18, riaprono il loro Spazio Tebe, luogo per «un teatro di parola fuori dalle città», a Firenzuola nel primo Mugello (indicazioni su come raggiungerlo sul sito www.archiviozeta.eu).
Vi recitano Edipo re, invitando chi vuole poi a fermarsi a cena al vicino agriturismo Brenzone (info 334/9553640). L’idea di mettere in scena questo grande classico è nata, come ci raccontano, al liceo Minghetti di Bologna e la traduzione è del giovane filologo dell’Alma Mater Federico Condello.
Come avete trovato questo spazio tra i monti?
Gianluca Guidotti: «Grazie all’amicizia con i gestori del Brenzone.
È nella valle del Santerno, un luogo bello, rovinato, purtroppo, dal passaggio dell’Alta velocità che ha devastato alcune delle zone più suggestive. Vicino all’agriturismo c’erano un’enorme stalla e un fienile, usati durante i lavori ferroviari come deposito, e poi svuotati. I nostri amici, sapendo che eravamo alla ricerca di uno spazio, ce li hanno proposti».
E andavano bene?
G.G.: «Erano il luogo ideale per sperimentare un teatro nella natura e per creare, allo stesso tempo, uno spazio contemporaneo tipo l’India di Roma, per dare un’idea. Vi si gode una vista fantastica su questa valle disabitata. Da due mesi è la nostra casa teatrale».
Dopo «Edipo» cosa farete?
G.G.: «Stiamo mettendo a punto il programma. Probabilmente riprenderemo un nostro vecchio spettacolo, Iliade, o avvieremo una piccola produzione nuova».
Come mai avete scelto di fuggire dalla città?
Enrica Sangiovanni: «Prima di fondare Archivio Zeta siamo stati giovani attori con Luca Ronconi. Abbiamo avuto la fortuna di debuttare in spettacoli come “Questa sera si recita a soggetto”, portato in tournée in tutto il mondo… Ma alla fine siamo fuggiti da Ronconi e dalla città. Per caso abbiamo trovato dimora tra le montagne e ci siamo trasferiti qui».
Come è nato Archivio Zeta?
G.G.: «Da idee ribelli, antagoniste al mon do in cui ci eravamo formati. Germina nel tanto tempo vuoto lasciato dai grandi progetti ronconiani. Nel 1999 abbiamo provato a allestire un nostro lavoro, Uccelli, da Aristofane, e poi ne abbiamo preparati altri. Ronconi non sembrava molto contento. Ci venne a vedere, sì. Ci disse: fate il vostro percorso… Siamo stati a lungo randagi».
Cosa vi ha lasciato un maestro come lui?
G.G.: «Soprattutto la ca pacità di leggere un testo, di pensarlo in uno spazio, di dargli un’interpretazione, di lavorare come orafi le parole».
E.S.: «E il lavoro ipertestuale. Con lui, nei momenti vuoti, si affrontavano opere che mai sarebbero andate in scena, come esercizio. Era un analizzare in libertà, con lui che parlava per ore e ore e noi rimanevamo incantati».
E cosa vi ha portato a se pararvene?
G.G.: «Abbiamo sviluppato una sorta di critica nei confronti di alcuni stilemi del recitare ronconiano.
Abbiamo cercato altre vie. Nel 2001 a Roma abbiamo incontrato, a una personale dedicata al loro cinema, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet…».
E.S.: «Fu una folgorazione. Ci hanno insegnato un corpo a corpo con il testo che tiene sempre conto del l’immagine come punto di vista. E non dobbiamo dimenticare, come maestra, Marisa Fabbri. Ma soprattutto l’incontro con Straub ci ha spinto a cercare un luogo dove prima non ci fosse mai stato teatro. E questa valle aspra, abbastanza isolata, è il luogo ideale. Popoliamo il paese, durante le prove, anche con 20 persone».
Come è nato Edipo?
G.G.: «Facevamo un laboratorio di teatro al liceo Minghetti di Bologna. Là abbiamo conosciuto Federico Condello, un giovane filologo allievo del rettore Ivano Dionigi. Ci ha parlato della sua traduzione dell’Edipo re. L’abbiamo letta e ci ha entusiasmato».
Perché?
E.S.: «Perché rende credibile Sofocle nell’italiano di oggi.
Perché fa leva, con ironia, sui lapsus, su veri e propri vortici linguistici, senza la pompa magna dei classici. Diventa quel gran giallo che è, con tutti che all’inizio conoscono già il colpevole tranne costui, che non sa nulla o finge di ignorare tutto. Lo abbiamo recitato a Fiesole e a Segesta come si usava a Atene: con soli tre attori, più uno che fa il coro. E abbiamo scoperto un ritmo interno straordinario, vorticoso, jazzistico».
Massimo Marino