Eschilo al Pilastro: la vendetta, la democrazia
Massimo Marino | 04/05/2013 | Corriere di Bologna / BOblog
Eschilo al Pilastro: la vendetta, la democrazia
Molti spettatori hanno scoperto il Pilastro solo ieri, grazie alle Eumenidi di Archivio Zeta. Lo spettacolo, nato nel Cimitero militare germanico della Futa, ha percorso il parco tra le case popolari e della zona di periferia in passato nota come ghetto, guardata con sospetto o ignorata dai bolognesi. Un serpentone di gente si è mosso da Dom di Laminarie in via Panzini 1, che ospitava lo spettacolo tratto dall’ultima tragedia dell’Orestea di Eschilo, verso il parco Pasolini. Là, con lo sfondo dei grattacieli, degli alberi e delle statue di cemento che richiamano un’antichità precipitata nei nostri tempi, come questo luogo dove si incrociano diverse immigrazioni, risuonava il greco antico della Pizia, tra stridori di lastre di metallo suonate come violoncelli. E a ogni spettatore veniva affidato un sasso, per il voto finale.
Si replica oggi, domenica 5 maggio, questo spettacolo bellissimo, che si snoda all’inizio con sguardo stupito in una periferia bella, popolata, accesa di voci e di colori di contrasto, e poi si richiude in due cupole, spazi amniotici, fascinosi del brutalismo del cemento, trasformati in Delfi e Atene, la cupola palestra delle scuole Saffi e la cupola spazio teatrale di Dom, cuore pulsante culturale di un luogo per decenni abbandonato solo alla voglia di riscatto degli abitanti.
Oreste implora Apollo, nel santuario di Delfi, di salvarlo dalle Erinni, donne in nero che lo perseguitano per l’omicidio della madre, compiuto per vendicare il padre, ucciso dalla donna. Polarità violente della tragedia antica, quesiti irresolubili. Siamo precipitati, in questa stazione, con il pubblico seduto in terra e le donne nere che incombono da bianche pedane, nella società della vendetta, dell’occhio per occhio dente. Bisogna muoversi, verso l’istituzione dei tribunali, che decideranno fuori dai vincoli di sangue la colpa e l’innocenza.
Nell’altra cupola, tra legno caldo e bianche pedane per le arcaiche dee matriarcali, prefiche vendicatrici, spicca il candore abbagliante della dea Atena, la ragione, non generata da donna ma nata dal cervello di Zeus. La società patriarcale greca si celebra, istituendo un tribunale in cui, nell’allestimento emozionante e pensoso di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, si imbrogliano i voti, le pietre fatte deporre a ogni spettatore, e si decide che Oreste è innocente: la madre è solo grembo che accoglie, la discendenza è quella del padre (lo teorizzerà, poi, dopo Eschilo Aristotele).
Ma è il finale, il centro segreto di emozione di questo spettacolo denso di invenzioni: le donne in nero si raccolgono intorno al fulgore di Atena e depongono gli scialli di lutto, per trasformarsi in donne della nostra epoca, ragazze, donne fatte, anziane, magre, grasse… Diventano la nostra normalità, che deve miscelare ragione e la follia, cercare risposte consci che non conosciamo la soluzione, solo il venire alla luce delle domande. E che nella quotidianità sono nascosti quel lato antico, represso, quella morte, quel delitto, quella violenza, quella invenzione della democrazia necessari per muoverci da vivi sotto tutto questo cemento e questa illusione di dominare, giudicare, decidere.
Merito a Laminarie di aver portato in città un’esperienza teatrale unica, che se ne sta appartata tra i monti (da vedere, tutti i fine settimana di maggio, il loroNemico del popolo di Ibsen, in località Brenzone di Firenzuola). Merito a Archivio Zeta di averci riletto e fatto vivere il Pilastro. Dicevano in un’intervista: “Del Pilastro ci colpisce l’architettura quasi da socialismo reale, senza negozi, senza orpelli. È una periferia che si sposa con i nostri spettacoli che cercano un’antichità profonda, senza colonne o gonnellini siracusani; piuttosto pasoliniana (Pilade a Appunti da un’Orestiade africana si mescolano qui con il testo delle Eumenidi, ndr). I quesiti sulla colpa, sulla giustizia e sulla democrazia stanno benissimo qui. Ha un forte senso la fondazione di un Areopago, il tribunale, su questo contemporaneo ‘monte di Ares’, dio della guerra e della violenza, in una zona della città che mostra oggi una voglia di riscatto dagli stereotipi passati anche attraverso la cultura. Noi ci siamo ritirati volontariamente sui monti. Ci piacerebbe, però, avere uno spazio in una città ricca di cultura come questa, per sviluppare progetti tutto l’anno, in dialogo con un pubblico attento. Ci dispiace essere qui solo per due giorni”.