A cura di Leonardo Favilli
L’UMANITÀ DELL’EDIPO RE DI ARCHIVIO ZETA
“Un dolore solo. Ciascuno il suo. Io soffro per la città”. L’EDIPO RE di Archivio Zeta racchiude in questa citazione l’essenza di un dramma che, per quanto improbabile ai nostri occhi da XXI secolo, trasuda umanità dopo 2500 anni. Al centro non risalta la figura del parricida incestuoso, gravosa eredità dell’esperienza freudiana, ma l’uomo della polis, colui che pospone se stesso al ruolo di amministratore e governante con dedizione e abnegazione. Il sovrano è amato e adorato dal suo popolo cui si rivolge per vendicare – leggasi rendere giustizia – Laio, re di Tebe, barbaramente assassinato in quel trivio fuori città che nell’allestimento si materializza nella struttura lignea sospesa al centro della scena. Il Fato però è incontrovertibile e il suo compimento può essere solo ritardato, senza possibilità di fuga. Il corpo di Giocasta (Enrica Sangiovanni) prima e quello di Edipo (Gianluca Guidotti) poi sono i mezzi che gli dei sfruttano per veicolare la loro volontà in un sacrificio che l’intero popolo di Tebe sconterà quando il loro nuovo re si toglierà la vista.
LA VISTA PROTAGONISTA DI EDIPO RE
E’ proprio questo dei cinque sensi che nella drammaturgia di Archivio Zeta viene esaltato, sia in presenza sia in assenza. In apertura, all’interno dell’antica chiesa circolare della Madonna del Monte, è lo sguardo sprezzante e inquietante di Giocasta, omaggio al corrispettivo cinematografico pasoliniano, che col bambino in collo sta per condurre il figlio, già ferito, alla morte consegnandolo al pastore che dovrà abbandonarlo sul Citerone. Il pubblico, peregrinando intorno alla scena al centro del suggestivo spazio, circondato dal dissonante e straziante rumore del pianto infantile, si immerge nel dramma. La vista è poi protagonista in potenza quando compare Tiresia (Enrica Sangiovanni), l’indovino cieco che con aria di sfida al limite dell’impertinenza affronta l’uomo di potere, il raziocinante contro il vaticinante, cercando di aprire gli occhi al re. Colpevole di avere un cuore cieco, il destino sarà crudele nella sua realizzazione quando condurrà Edipo a privarsi della vista. Una pena per contrappasso che non risparmia neanche Giocasta, primo anello di una catena di eventi che si chiuderà con il suo suicidio per impiccagione: colei che ha generato la vita, si darà la morte.
LA PIETÀ: MOTORE SUPREMO DEGLI EVENTI
Non è infatti bastato il suo grido di dolore per fermare Edipo, per alleviare la sete di vendetta. C’è consapevolezza nella donna che, sin dalla fissità dello sguardo iniziale, affronta con forza, con rassegnazione mai remissiva il suo destino. Anche quando l’incesto sarà acclarato, non c’è vergogna in colei che ha accolto nel suo ventre, da madre e da moglie, il figlio abbandonato sul Citerone: il suo corpo è stato un mezzo per il compimento della volontà divina e per questo c’è una dignità profonda nel personaggio interpretato magistralmente da Enrica Sangiovanni. “Quale uomo può dirsi felice più di un attimo?” – così, al posto del coro nel testo originale, si rivolge Giocasta al pubblico – attonito popolo tebano – poco prima di darsi la morte, destino che sarebbe spettato a suo figlio se non fosse stato per il pastore che ha deviato il corso degli eventi, affidando il neonato ad un servo. “Lo ha messo in salvo perché soffrisse i mali più tremendi”: l’umana pietà del pastore, motore del destino di Edipo, è fattore scatenante supremo, segno della crudeltà con cui la volontà degli dei sembra scagliarsi addosso agli uomini.
LA PASSIONE IN SCENA SI TINGE DI ROSSO
Nella drammaturgia di Guidotti e Sangiovanni non si cerchino, però, rabbia o disprezzo nei confronti di quegli dèi “cattivi” – che in questo speciale allestimento sembrano farsi beffa degli sventurati, gaudiosamente eternizzati nel timpano della villa. Il dramma è tutto puramente umano, fatto di passioni e di sentimenti che si fanno materia nei cappotti dei protagonisti, di un rosso che è sangue sacrificale sull’ara del senso di dovere del governante, ma anche linfa vitale delle passioni umane. Non c’è via di scampo sul finale quando, sulla scena vuota, campeggia solitario il rosso del cappotto di Giocasta, appeso in balia del vento, mentre il trono è ribaltato: non è bastata la dedizione con cui Edipo ha difeso la città dalla tirannia per salvarlo.
L’INGRESSO DEL PUBBLICO NEL DRAMMA DI EDIPO RE
L’allestimento itinerante di Archivio Zeta, iniziato all’interno della chiesa della Madonna del Monte, inglobata nell’Ottocento dalla villa napoleonica, e proseguito nel parco dopo una breve e un po’ impervia camminata nel bosco circostante, ha arricchito la messa in scena di suggestioni e di ruoli per il pubblico che si sono evoluti nel corso dello spettacolo. Fa il suo ingresso in punta di piedi nel dramma, silenziosamente attonito di fronte a Giocasta in trono che sta per consegnare il figlio al pastore (Gianluca Guidotti), maschera mediterranea che ancora oggi possiamo incontrare nella tradizione folcloristica locale, mentre le teste di alcuni santi dell’Alto Medioevo si fanno testimoni oculari nella fissità dei loro sguardi, come in quello della regina. Una Pietà che, nella sua profonda spiritualità, è smaccatamente profana perché il destino deve ancora compiersi e negli occhi della donna non c’è serena rassegnazione ma rabbia.
IL RUOLO DEL PUBBLICO E LA SUA EVOLUZIONE
La spiritualità dell’inizio ci impone il silenzio mentre i rumori della Natura sono accompagnati, talvolta in dissonanza, dalle musiche curate da Patrizio Barontini e dai suoni curati da Tempo Reale. In posizione predominante sulla valle la regina ha lo sguardo lontano e sembra non voler assistere all’abbandono del figlio che avviene dietro e sotto di noi, spettatori combattuti tra l’umana tristezza di Giocasta e l’inesorabile fato che, com’è scritto, si sta concretizzando davanti ai nostri occhi. La risalita e l’ingresso in scena avviene attraverso un passaggio nella siepe, varco spazio-temporale che ci conduce a Tebe e ci trasforma nel popolo cui Edipo, implorante e assetato di giustizia, si rivolge dall’alto del pronao neoclassico. Da qui restiamo protagonisti fino alla fine, coro muto in questo allestimento che non lo prevede – soluzione già adottata dal 2015 dopo il trapasso di Franco Belli, storico interprete di questo ruolo.
ARCHIVIO ZETA INTERPRETE DELLA SACRALITÀ DEL MITO
Come abbiamo sottolineato più volte assistendo alle messe in scena di Archivio Zeta, Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti hanno la passione e la competenza di modellare la drammaturgia, anche per i grandi classici, estrapolandone ed amplificandone una spiritualità evocativa ed universale. Il loro linguaggio multiforme e polisemantico è in grado di parlare alle corde profonde della sensibilità umana, che in quanto tale non vede differenze di nessuna sorta tra gli spettatori. Se rivedessimo già domani questo spettacolo sappiamo che riusciremmo a scorgerne nuovi elementi, a coglierne nuove suggestioni. Un classico può considerarsi tale se usa un linguaggio universale, ma solo se i suoi interpreti sanno farsene portavoce, allora lo si può percepire ancora tale. Archivio Zeta è sicuramente interprete sublime cui possiamo affidarci, sacerdote che introduce noi privilegiati alla sacralità dionisiaca dei classici come nel naos di un tempio pagano.
Visto il 2 luglio 2022
EDIPO RE
diretto e interpretato da Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti
traduzione Federico Condello
musica Patrizio Barontini
sartoria Made in Tina
scenotecnica Andrea Sangiovanni produzione Archivio Zeta 2011 al Teatro Romano di Fiesole – ripresa 2012 allo Spazio Tebe – riallestimento 2015 Aula Magna Santa Lucia/Homo sum, la Permanenza del Classico
APPROFONDIMENTO: ARCHIVIO ZETA E IL RAPPORTO CON PASOLINI
L’allestimento che Archivio Zeta ha elaborato per questa nuova scenografia naturale – il parco di Villa Aldini a Bologna – è anche un omaggio alla cinematografia di Pier Paolo Pasolini, nel centenario della nascita: la prospettiva della prima scena a tutto tondo, dove il nostro occhio era una telecamera rotante intorno ai protagonisti congelati in uno scambio di sguardi eterno, e poi Giocasta rivolta alla vallata dalla sua posizione predominante, senza assistere alla scena dell’abbandono che si richiama direttamente alla pellicola. Una drammaturgia profondamente pasoliniana che completa il tributo reso al regista dalla compagnia con la mostra fotografica “100 colpi” (fino al 30 settembre) all’interno della Villa, curata dagli stessi Guidotti e Sangiovanni: una selezione delle istantanee scattate dalla fotografa inglese Deborah Imogen Beer durante le riprese in esterna di Salò o le 120 giornate di Sodoma, ultima pellicola del regista, proprio presso Villa Aldini.