Dostoevskij al Cimitero tedesco della Futa: il male sarà vinto dall’amore?
Paolo Guidotti | 11/08/2019 | Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello
FIRENZUOLA – C’è qualcosa di nuovo anzi di antico… Nell’allestimento teatrale quest’anno messo in scena, nell’ormai consueto straordinario palcoscenico del cimitero germanico della Futa, da Archivio Zeta.
Da più di quindici anni, alla Futa, la compagnia di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti batte su un unico tasto. Apparentemente monotono. Il male nel mondo, il male nel cuore dell’uomo. L’umanità ferita e sconfitta, il dramma intrinseco dell’uomo. Che quando pur si eleva e mostra dignità viene schiantato e imprigionato e sconfitto. E’ la trama delle numerose tragedie greche che negli anni, tra le trentamila tombe della Futa, Archivio Zeta ha offerto a un pubblico attonito e impegnato.
Tragedie sempre rilette con l’occhio rivolto alla contemporaneità, nella consapevolezza che i drammi esistenziali sono senza tempo, e che addirittura l’ultimo secolo è stato un concentrato di drammi storici e guerre mondiali.
Per questo non sorprende la scelta di un testo temporalmente più vicino a noi – ma già alcuni anni fa Guidotti & Sangiovanni nel cimitero tedesco della Futa avevano fatto riecheggiare le parole forti dell’intellettuale austriaco novecentesco Karl Kraus, contro i totalitarismi -. Così neppure sorprende l’approdo a Dostoevskij. Chi per tanti anni ha attualizzato i temi esistenziali delle antiche tragedie greche non può non essere affascinato dalle profondità e dall’intensità del grande scrittore russo.
Questo nuovo accostamento però introduce anche un elemento di novità nella visione esistenzialmente tragica, ai limiti della disperazione sempre proposta da Archivio Zeta. Con Dostoevskij Guidotti e Sangiovanni, dichiaratamente atei, approdano – finalmente, perché sarebbe stata omissione assurda e preconcetta per chi si muove in modo appassionato sul terreno che indaga e racconta l’animo umano, i suoi drammi e le sue aspirazioni – alla drammaticità del Cristianesimo, e all’intensità del suo messaggio. Un Cristianesimo che “pretende” di dare redenzione alla cattiveria dell’uomo, che risponde con la risurrezione al destino di morte, che crede alla vittoria del bene sul male.
E per la prima volta la rappresentazione di Archivio Zeta usa citazioni dirette dai Vangeli, fa riecheggiare il “Talita Kumi” della risurrezione della bambina, allestisce la scena della Crocifissione di Cristo, e Gesù stesso cammina in mezzo al pubblico nelle scene finali, dov’è sottoposto a un nuovo processo, stavolta intentato non da Caifa ma dal Grande Inquisitore. Che l’attacco a Cristo e al Cristianesimo venga poi, oltre che dal Diavolo, proprio dal Grande Inquisitore, è anch’esso significativo, una scelta di campo, che poi si scioglie nelle parole finali della bambina/angelo, parole che aprono una nuova prospettiva di speranza e di riscatto: “Gli uomini possono essere bellissimi e felici, senza perdere la capacità di vivere sulla terra. Io non voglio e non posso credere che il male sia lo stato normale degli uomini”.
Del resto la narrazione cristiana, nella sua fondamentale essenza, non negli snaturamenti, nei tradimenti, nelle deviazioni e negli annacquamenti di duemila anni di storia, è altamente drammatica, nella sua continua lotta tra bene e male, tra morte e vita. E’ la storia di un Dio che si fa uomo; è la storia di un Dio che si fa crocifiggere per prendere su di sé il male del mondo e redimerlo. Ed è una storia che è antitesi fiera alla proposta nichilista e relativista dei tempi di oggi. Il sacro ha a che fare con la profondità dell’umano, ed è per questo che Sangiovanni e Guidotti, di fronte alla cruda religiosità di Dostoevskij, confessano in un’intervista: “Siamo affascinati dal sacro, perché lo abbiamo totalmente rimosso dalla nostra vita”.
Così un sacro, come dire? più prossimo alle nostre radici culturali – ma già quanto distante dalla cultura imperante! – , il sacro delle cattedrali cristiane, il sacro dell’incenso, delle vesti e dei canti ortodossi, trova spazio nella rappresentazione. E, antitesi di tutto ciò che è male, patologia e violenza, diventa parte integrante della grande domanda che assilla da sempre il cuore dell’uomo contemporanea, alla ricerca del senso dell’esistenza.
Una domanda che scaturisce istintiva in un luogo come questo sconvolgente cimitero. Un luogo profondamente umano, intriso di dolore, e nello stesso tempo di speranza. Data proprio dal riferimento al sacro, da quella sorta di grande dito di pietra che si innalza al centro, circondato da trentamila tombe, quasi tutti giovani, e che fa da ponte fra terra e cielo. Una terra segnata dalla violenza insensata dell’uomo sull’uomo, di una cultura occidentale che non si pone più limiti morali, e dove dunque tutto è permesso, nelle contraddizione più assoluta, e nella negazione di tutto, di una cosa e del suo contrario.
E questo dramma “Pro e contra Dostoevskij” ci fa attraversare. Lo fa con la forza assoluta delle parole e del pensiero, ed anche giocando molto sul suo essere spettacolo itinerante, che conduce il gruppo degli spettatori in diversi luoghi del cimitero, uno più suggestivo e intenso dell’altro.
Merita ripeterlo: l’idea di ambientare spettacoli-tragedie in un luogo come questo è stata geniale, sia sul fronte del significato che su quello più meramente scenografico. Perché quei “fondali”, costituiti dal verde e dai monti dell’Appennino, il sole al tramonto, il Mugello e il lago di Bilancino all’orizzonte, sono davvero straordinari e caricano la rappresentazione di un pathos suppletivo.
Così come è ben congegnata, in genere, la regia, ed efficace la recitazione: non solo quella dei due protagonisti-registi, con una nota speciale per l’interpretazione “diabolica” di Enrica Sangiovanni, ma anche quelle della già bravissima piccola Antonio Guidotti e del fratello Elio, mentre Alessandro Vuozzo ricorda, più giovane, il Cristo pasoliniano, contrastato dal Grande Inquisitore, il firenzuolino Alfredo Puccetti, da anni presente nelle rappresentazioni di Archivio Zeta, e con Andrea Sangiovanni, monaco narratore.