Cronache – Maia 2/2013

Ludovica Radif | 14/02/2013 | Maia

CRONACHE

Eschilo, Eumenidi, regia di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni, Associazione Cultura- le Archivio Zeta – Progetto Linea Gotica Orestea 2010-12, Cimitero Germanico, Passo della Futa (Firenze), 16 agosto 2012.

Foto di Franco Guardascione

Sul crinale deserto, fra alti monti che ricordano i picchi d’origine delle Muse, bianca si leva la Pizia, ripetendo una formula greca. Il riferimento è alla manteiva, mentre ogni spet- tatore, passandole accanto, da lei riceve un sassolino bianco; siamo al Cimitero Germanico, all’aperto, in un tardo pomeriggio estivo, e quel simbolo, per tutti uguale, un piccolo peso che ci accompagna per l’intero spettacolo, dà la sensazione sinistra e insieme complice di essere partecipi di un comune rito funebre. La tragedia, la profezia si sviluppa poi entro una camera foderata di lapidi. Ci si siede per terra: sacerdote ne è Apollo, un Apollo dimentico delle dolci armonie della sua cetra; il suo unico suono è piuttosto un glissato malriuscito di violino, che traccia nell’aria un destino stonato. L’anima in questione è lì al centro, un Ore- ste invecchiato, cui le durezze di quella vita intessuta di morte hanno incanutito anzitempo il capo. Un barlume di speranza si fa strada nel vuoto. Apollo pare stia dalla sua parte, ma tutto intorno a lui si levano figure femminili, le cui tuniche nere proseguono ben oltre i pie- di, sui piedistalli, regalando la silhouette di giganti del terrore. Non sono le Furie tradizio- nali avvolte in spire impetuose e convulse a tormentare il figlio di Agamennone nella spirale di un atavico rimorso, ma ombre raggelanti, oscuri presagi che incombono, mentre le due bandiere di fuori, italiana e tedesca, rilasciano al vento l’inquietante bramito, come inutile scansione di un tempo perduto. A incitare da fuori le Erinni, come neri uccelli pascoliani al vetro di una finestra, sta la vittima carnefice, la moglie di Agamennone, che dall’Oltretomba ripete con voce stridula e affannata le ragioni dell’implacabile vendetta: non possono giudi- carsi sazie, è un dovere l’inseguire il matricida. Unico scampo il tribunale di Atene. È in quell’occasione che due signori si staccano dal pubblico per iniziare un interessante percor- so da protagonisti, levandosi a rappresentare la cittadinanza comune; con bussola e mappa fanno strada al resto degli spettatori, guidandoli idealmente fino alla città di Atena, dopo aver rimirato le montagne, le lapidi, quella sorta di fortino-monumento ai caduti dell’ultima guerra, che continua a rilanciare gli interrogativi irrisolti sulla giustizia umana. L’ambiente successivo, lo spazio quadrangolare in pietra grigia sopraelevato, è arredato a parlamento con file di giudici, gli spettatori. A parlare, a guidare l’assemblea in un impegnativo di- scorso sulla giustizia è la dea, dai lineamenti nordici e tono distante, a volte quasi forzato e ironico, chiusa nel suo overcoat immacolato. Una certa freddezza le permette di gestire il caso, interpellando ora una parte ora l’altra, i cui termini di giudizio alla fine si esprimono bipolarmente nelle due figure dei rappresentanti del popolo, rispettivamente coperti di un manto bianco e un manto nero. È in quel momento che, bellissima intuizione, gli spettatori sono invitati ciascuno a deporre la propria pietra, come novello yhvfisma, nell’urna bianca o nell’urna nera. Saranno loro stessi, in istanti carichi di suspense drammatica, a disporre in linee per terra le singole pietre come altrettanti voti di condanna o di assoluzione.

Tanto più interessante quanto più sorprendente il fatto che molti spettatori si fossero espressi in termini di colpevolezza nei confronti di Oreste… Le pietre dunque in una co- stellazione simbolica riproducono lo stato di parità e dunque di assoluzione per Oreste, che infatti scappa subito via, lontano dall’incubo. Quelli che rimangono invece sono gli spettatori, divenuti corresponsabili di un nuovo mito eziologico in cui, come ben argomenta Atena, le Erinni non possono essere ignorate. Radunandosele attorno in una capanna rituale di squadra, Atena le invita a deporre il loro mantello nero di vendetta, operando una distin- zione determinante, tra il delitto su Agamennone e il delitto su Clitemnestra. Così, lasciata la veste a terra e i loro piedistalli, le Erinni tornano persone comuni, civili qualsiasi con colori e volti appartenenti a una quotidianità contemporanea. Non suscitano più paura, anzi vengono pienamente integrate in mezzo all’assemblea come Eumenidi, forze benevole. Un tribunale che non le accogliesse sarebbe incapace di accettare i contrasti, pulsioni ataviche, insopprimibili impulsi alla vendetta, che non vanno ignorati, ma piuttosto domati o inca- nalati a favore del giusto. Così nasce la democrazia, ben rievocata in quel luogo montano e un po’ isolato in cui la morte tiene sospesi i giudizi, in cui, al termine della trama, si lascia qualche istante di incertezza se sia veramente finita la tragedia, perché ciascuno abbia il tempo per porsi dei dubbi, per trovare un suo ruolo, un suo taglio prospettico di giudizio, una filosofia di non ritorno tra la bestialità e il divino.

Ludovica Radif