Ci salvi il Minotauro
Viviana Santoro | 02/09/2017 | Vox Zerocinquantuno
Ci hanno raccontato che dietro al Minotauro si nasconde una bestia, connubio insolito tra uomo e animale. Ci siamo abituati all’immagine di un mostro insaziabile, ammansito solo col sacrificio annuale di sette fanciulle e altrettanti giovani ateniesi. Ci siamo affezionati alla figura dell’eroe greco per eccellenza, Teseo, che armato di fermezza e amor di patria sfida le trame di Dedalo per sferrare il colpo fatale al cuore del labirinto, abbattendo il mostro e riscrivendo le sorti del suo popolo. Ci siamo quasi impietositi di fronte al sentimento di Arianna che, innamoratasi di Teseo, srotola quel filo rosso che lo aiuterà a non perdersi negli intrighi di un luogo ostile, facendogli ritrovare la via del ritorno ma ottenendo come unica ricompensa l’abbandono sulle sponde di Creta da parte dell’uomo amato, dimenticatosi di lei e del suo estremo gesto d’amore: l’uccisione del fratello Minotauro.
E se le cose stessero diversamente? Se il Minotauro fosse una figura innocua, i fanciulli i suoi alleati, Teseo il vero carnefice, Arianna una donna segretamente innamorata del fratello, il filo rosso un messaggio d’amore, il tentativo di mantenere un contatto? Non semplici congetture ma un deciso ribaltamento di prospettiva costituiscono il percorso battuto da Julio Cortàzar nel 1949, quando lo scrittore, riformulando il mito e dando alla luce Los Reyes, ha costretto a reinterpretare gli indizi del passato leggendoli sotto una luce diversa. Disseminando altri indizi. Sollevando dubbi e questioni.
È su questa strada che si è imbattuta la Compagnia teatrale Archivio Zeta, dal 1999 impegnata in un lavoro culturale rivolto all’archivio, alla memoria umana. Allora è chiaro che la provocazione del poeta argentino non poteva non essere accolta da una compagnia che tenta di disincrostare le colonne portanti di storie divenute leggendarie, con l’obiettivo di ristrutturarne il senso agli occhi di oggi.
Così, dal 5 al 20 agosto scorsi, Archivio Zeta si è cimentato in un lavoro che ha preso il nome di Il Minotauro, nel labirinto di Julio Cortázar, allestito per le vie silenziose di un luogo singolare ma ormai familiare agli occhi degli artisti Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni: il Cimitero Militare Germanico del passo della Futa, punto storicamente nevralgico nell’Appennino tosco-emiliano.
Sul terreno attendono lo spettatore una conchiglia e un corno, oggetti usati da Minosse (Ciro Masella) per lanciare un grido lontano. Grido riverberato a qualche metro di distanza e incanalato in una lamina in metallo collocata al centro della scena a sancire un’altra lontananza, quella tra Arianna e suo padre. Spezza questa disarmonia la fanciulla che si darà in pasto al Minotauro: non si può che seguirla tra le lapidi dei soldati tedeschi, mentre Minosse e Teseo si fronteggiano alle porte del labirinto, finché i due re stabiliscono di uccidere il mostro per sbarazzarsi di una minaccia prima di tutto personale, assicurandosi quindi la loro sovranità. Lo spettacolo itinerante porta allora a seguire il filo di Arianna verso il cuore della dimora mostruosa, dove l’innocenza di un bambino riconsegna l’immagine di un Minotauro spietatamente innocuo. Circondato da danzatori, giocolieri e altri giovani spensierati calati in una dimensione surreale, le ultime parole della vittima al suo carnefice risuonano come un avvertimento, perché «non è con gli occhi che si affrontano i miti» quando basterebbe «colpire con una formula, un salmo: con un altro racconto».
Nel mito è cortocircuito, nella realtà è pane quotidiano. La salvaguardia dello status quo, il sentimento piegato alle volontà di dominio, l’emarginazione della poesia e delle arti. L’intuizione felice di Cortàzar, recuperata fedelmente da Archivio Zeta seppur integrata con la sua sensibilità artistica e ricollocata in uno spazio particolare e naturalmente labirintico come il Cimitero Germanico, è un’intuizione che, forse, aiuta a guardare meglio l’oggi rispetto al passato. Se l’antichità greca ammetteva le mostruosità senza alcun tipo di scandalo, anzi generava creature ibridate uomo-animale/ragione-pulsione perché le concepiva come esiti connaturati alla natura umana, i secoli successivi hanno via via demonizzato quegli strati di ferinità come elementi lontani da noi. Ma, come ovvio, è anche dietro la bestialità, le pulsioni, gli istinti, la mancanza di una razionalità calcolatrice che si cela la consistenza dell’uomo. Di conseguenza, nell’immaginazione, nell’ispirazione poetica, nell’arte. Del resto, non è un caso se continuiamo a guardare i classici per scoprire meglio noi stessi, ogni volta senza esaurire mai completamente il senso che qualcuno ha già intessuto seminando, spesso inconsciamente, altri possibili percorsi di senso.
Allora ci salvi la poesia. Ci salvi il Minotauro.
Viviana Santoro, laureata in Italianistica, apprendista insegnante, spettatrice accanita e attrice occasionale, nutre una passione viscerale nei confronti delle parole, nel loro significato in continua evoluzione; quest’interesse l’avvicina all’uso che il teatro fa delle parole e, più in generale, al teatro come linguaggio sperimentale e come strumento didattico.