“Baccanti” di Euripide Recensione di Maria Cecilia Bertolani

Maria Cecilia Bertolani | 04/07/2023 | Centro Psicoanalitico di Bologna

Dioniso: io ti dico di non legarmi, io saggio a chi saggio non è.
Penteo: E io di legarti, io che ho più autorità di te.
Dioniso: Tu non sai che vita tu viva, né che cosa tu faccia, né chi tu sia.
Baccanti, 504-506

Nell’ambito di in-osservanza, un coraggioso progetto di residenza artistica e rigenerazione urbana in collaborazione con il Comune di Bologna, gli Archiviozeta, che da anni mettono in scena grandi classici (dai tragediografi greci a Dostoevskij a Thomas Mann), si confrontano con il testo euripideo delle Baccanti, in uno spettacolo itinerante che trasforma in scenografia i diversi spazi di Villa Aldini, divenuta una novella Tebe. Un testo straordinario e audace quello delle Baccanti che mette in scena lo stesso Dioniso, dio delle illusioni, quindi del teatro, oltre che degli sfrenati culti dionisiaci e del vino che “affranca dai dolori e dà il sonno, oblio dei mali che giorno dopo giorno giungono” (Bacch. 279-281). Le gioie di Dioniso, generalmente vissute all’interno di una esperienza collettiva e contagiosa, si estendono su un’ampia gamma, dai semplici piaceri del saltarello campagnolo fino al baccanale estatico. Il culto prevedeva anche uno stato di danzimania, praticato sulla montagna, nel segreto della foresta. In tutte queste manifestazioni di tipo catartico, Dioniso rimane sempre Lysios, il liberatore, colui che, per breve tempo, pone ciascuno nella condizione di non essere più se stesso (come ci ricorda Dodds in I greci e l’irrazionale).
Il testo delle Baccanti racconta di Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, che giunge in forma umana a Tebe, patria della madre, per affermare la sua divinità di contro a coloro che lo ritenevano solo umano, insinuando che suo padre non fosse Zeus bensì un comune mortale; il re Penteo, suo nipote, è deciso ad opporsi ai riti dionisiaci, che corrompono l’onestà delle donne e che coinvolgono indistintamente tutti, di tutte le classi, giovani e vecchi. Un culto antielitario dunque, che sappiamo coinvolgeva direttamente i ceti più popolari, e non a caso Euripide, nelle Baccanti, rifiuta una concezione elitaria della cultura (“il sapere non è saggezza” Bacch. 395). Penteo, tuttavia, preso dalla sua logica di potere e di apparente razionalità, non riconosce il dio e tenta invano di usare la forza per imprigionare quell’inquietante “straniero”, sempre capace di svincolarsi. Cadmo, padre di Semele, e l’indovino Tiresia, seppur vecchi, onorano il dio con la danza e mettono in guardia Penteo dal macchiarsi di empietà, perché non riconoscere il dio sarebbe follia vera, secondo quanto avverte Tiresia: “Penteo, dammi retta. Non illuderti che il prevalere sugli altri equivalga ad un effettivo potere sugli uomini (…) non credere che questa sia una saggezza autentica (…). Dunque io e Cadmo, che tu deridi, ci incoroneremo di edera e parteciperemo ai cori: due vecchi, si’, ma è doveroso farlo. Non combatterò gli dei, non mi farò convincere dalle tue parole. Tu sei pazzo della pazzia che fa più male e ne’ coi farmaci potrai ottenere la guarigione ne’ senza di essi” (Bacch. 310-324). Ma quando le donne, tra cui la madre, in uno stato di trance ispirata dal dio, si recano sul monte Citerone per celebrare i culti bacchici, Penteo, travestito da donna, si lascia convincere dal dio a seguirlo per poter vedere di nascosto le baccanti. La madre di Penteo, Agave, insieme alle altre baccanti, in preda alla mania, lo scambia per un leone e lo fa a pezzi (lo sparagmos), decapitandolo. Quando Agave torna in sé, uscendo dalla trance allucinatoria, si accorge con orrore di portare in mano come trofeo la testa del figlio. La vendetta del dio è compiuta. Mentre Cadmo piange la morte di Penteo, appare Dioniso: le sventure accadute derivano dal non aver onorato la sua potenza.
Bisogna tuttavia tenere presente l’ambivalenza di Dioniso per comprendere bene la tragedia: non riconoscere Dioniso significa reprimere gli elementi primigeni della propria natura e il rischio, ricorda ancora Dodds, è il crollo improvviso e completo degli argini interni. La civiltà stessa viene travolta e sommersa. Il gruppo delle donne invasate perde la testa e la fa perdere, in senso metaforico e letterale. Potremmo dire che la riunione con una madre onnipotente che nega la castrazione conduce inevitabilmente alla rovina. Il dio ha anche un volto terribile, distruttivo e dis-umano. Distrugge e ricrea, portando in sé gli elementi originari della propria nascita, la morte per folgorazione della madre Semele che lo teneva in grembo e l’essere nato una seconda volta, miracolosamente reinfetato nella coscia di suo padre Zeus.
Tale complessità viene messa in scena con grande sapienza teatrale e culturale dagli Archiviozeta, anche grazie ad alcune soluzioni sceniche: Dioniso è rappresentato al contempo da un attore e da una attrice, a indicare la compresenza e l’integrazione delle polarità maschile-femminile, così cara al tantrismo indiano. Ma l’India è presente anche in una partitura di gesti, posture che, sotto la guida della maestra di danza indiana Bharatanatyam Giuditta de Concini, rinviano a un Dioniso-Shiva, a un culto orientale che aiuta la comprensione di questi riti lontani. La musica si intreccia alle parole del testo, aumentandone la suggestione evocativa. L’attrice che impersona Penteo, in abiti maschili, è al contempo anche Agave che, nel furore estatico esclusivamente femminile, finisce per nuocere a se stessa.
Estasi, passione, illusione, follia, catarsi, trance, danzimania, sono tutte possibilità dell’umano che questo bellissimo spettacolo ci aiuta a ripensare.