Antigone al tempo del Covid
Damiana Guerra | 06/10/2020 | MocuMagazine
Sabato 3 ottobre, nell’ambito di Periferico Festival, Archivio Zeta ha portato in scena “Requiem Antigone” all’interno del cimitero di San Cataldo di Modena.
Il silenzio del cimitero di San Cataldo di Modena accoglie un inusuale pubblico: entrando dall’ingresso principale, il lungo porticato con le alte colonne grigie suggerisce la sensazione di essere all’interno di uno spettacolo metafisico dove nessuna presenza sembra essere effettivamente viva. Esistono solo le Idee, uniche forme concrete e reali in un iperuranio contraddittorio che è stata la nostra vita fino a pochi mesi fa.
Una musica sospesa, appena sussurrata, segna l’ingresso degli attori: un contrabbasso appoggiato su di un drappo nero giunge da lontano assieme agli attori e ad una potente Antigone, tutti vestiti di nero. Quello che vediamo sopraggiungere è un lutto misurato e trattenuto.
In questo contesto quasi onirico e silenzioso, il pubblico è invitato a partecipare ad una sorta di rito (o processione) suddiviso in tre “scene”:
nella prima, presa direttamente dalla tragedia di Sofocle, Antigone afferma a gran forza che è sua intenzione seppellire il corpo di suo fratello, nonostante il divieto di Creonte;
nella seconda scena il “protagonista” è un monologo concentrato sul tema del corpo, sull’importanza e sulla forza necessarie ad amarlo;
ed una terza, concentrata sul teatro e sul concetto di continuare ad essere a tutti i costi una “comunità”, seppur così “distanzati”.
Lo sviluppo dello spettacolo è lento, centellinato: le parole e i gesti degli attori sono rarefatti. Sembrano quasi congelati in un tentativo di catarsi che inizialmente suona impossibile, ma che sul finale ci si ritrova quasi a sperare: man mano che il sole tramonta e la sua luce cede il posto a quella delle torce e delle candele sulle tombe, ci si sente davvero ingoiati all’interno di un rito magico, il cui intento sembra essere quello soltanto di scostare ogni velo di ombra che rende il nostro sguardo impotente. Come Antigone, anche noi vogliamo una sorta di giustizia morale e avremmo desiderato dare sepoltura a tutti i nostri cari morti soli per il Covid 19. Avremmo voluto farlo proprio come lei: violando le leggi dello Stato e pretendendo che siano quelle invece dell’empatia a prevalere.
Dal concetto di morte attraverso il corpo si arriva a cogliere la sua valenza in quanto elemento politico e metaforico: il corpo, quello che noi spettatori abbiamo accompagnato fino all’ossario di San Cataldo, viene accompagnato con inni d’amore, quelli che forse avremmo voluto intonare nei mesi del lockdown. I corpi si riscoprono “gioiosamente virali” e devono essere amati proprio in quanto effimeri e transitori. In questo messaggio, sembra quasi di cogliere il suggerimento di usare i corpi per vivere in concreto e non di sopravvivere per preservare i corpi.
L’invito finale è quello di difendersi da ogni “Stato-Creonte” ma il messaggio resta vagamente ambiguo: l’aura solenne e magica delle prime due scene sembra un po’ svanire verso il finale, lanciando una critica politica diretta che non aggiunge nulla al clima di perplessità che la nostra società si è trovata (e si trova ancora) a sperimentare.
Che resta tornando a casa?
Solo una domanda: come potrà questo requiem situarsi al di fuori dello spazio temporale in cui è nato? Come possono il corpo, l’arte o il teatro sopravvivere ad una Storia indifferente come quella dei nostri giorni? Antigone riuscirà davvero ad abbracciare il corpo del fratello?
Mentre questo silenzio viene accompagnato dalle note finali del contrabbassista, gli attori stendono per terra alcuni drappi neri: sono tutti i cadaveri degli assenti, i morti dei mesi passati.
Sono proprio loro il nostro buco nero, un qualcosa che non potremo mai vedere fino in fondo.