Dalla morte un inno alla Natura umana
Leonardo Favilli | 08/08/2019 | Gufetto
In occasione del 50° anniversario della sua inaugurazione il Cimitero Militare Germanico al Passo della Futa ha nuovamente aperto i suoi cancelli al pubblico per PRO e CONTRA DOSTOEVSKIJ, ultima fatica drammaturgica della compagnia Archivio Zeta (repliche straordinarie il 14 e il 21 settembre). Abbandonando un filone che negli ultimi anni li aveva visti concentrati sui grandi classici di un passato più remoto gli instancabili Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti hanno volto la loro attenzione ai lavori del romanziere russo traendo ispirazione da “Il sogno di un uomo ridicolo” e “I fratelli Karamazov”. Il risultato è una commistione di suggestioni, emozioni e riflessioni che riempiono con sorde grida i silenzi di cui lo spazio scenico è fatto, scanditi solamente dal vento in cui arriva a perdersi perfino qualche lacrima.
“L’Europa è un cimitero”. Partendo da questo presupposto non potrebbe esistere luogo più indicato per questa rappresentazione. E la compagnia lo sa bene. Girovagare per un continente alla ricerca del proprio posto nel mondo, questo mondo ed in questo momento storico, rendendosi conto che è fatto solo di lapidi silenziose, significa scegliere come rinunciare alla vita e dove trascorrere il tempo che viene dopo, ammesso che ne esista ancora. Ma se fosse così allora anche il principio di causa-effetto crollerebbe e non ci sarebbero più un prima o un dopo ma solo un’unica dimensione in cui i piani temporali si confondono. Spetta ad ognuno dei presenti cercare di ricomporre il puzzle per recuperare quel senso della misura che spesso ci imbriglia. Una misura del mondo che con nuove unità potrebbe stravolgere l’equilibrio tra bene e male conducendoci a definire nuove leggi etiche.
Nella loro drammaturgia costruita su Dostoevskij Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti hanno compiuto uno straordinario (in tutti i sensi) lavoro di analisi e di sintesi per scardinare alle fondamenta quel sistema di pensiero che oggi ci sembra l’unico possibile, l’unico accettabile, l’unico “civile” nell’Europa moderna. Ad accompagnarci in questo metaforico viaggio è il protagonista de Il sogno di un uomo ridicolo, un eroe-inetto che nonostante le sue lunghe peregrinazioni trova la sua unica realizzazione nel suicidio per potersi finalmente distendere su quel vecchio e logoro materasso che è ormai il vecchio continente, pronto per le esequie finali. Ma quando sembra giunto il momento, un inatteso incontro rompe il nuovo equilibrio trovato e induce l’uomo alla riflessione: possibile che la semplice e naturale compassione per una bambina e per sua madre in pericolo, riesca a dargli quel senso della vita che nemmeno la cultura guidaico-cristiana ha potuto garantirgli?
“Fin troppo vasto è l’uomo”. Serve Belzebù in persona, interpretato magistralmente da Enrica Sangiovanni, a dare una risposta e a ricordare al protagonista che la spinta deterministica dell’uomo a dare a tutto una forma, tanto da plasmare l’infinito mondo in funzione della finitezza umana, tradisce la sua innata vastità. Finché gli astronomi potranno scambiare una scure per un satellite calcolandone ritmi di alba e tramonto, l’uomo potrà credere che dalle sue decisioni dipenda l’esistenza della realtà. Ma tale condizione di Gloria non può appagarlo se non passa attraverso il Dubbio. Solo così il genere umano potrà finalmente plasmare se stesso in funzione del mondo e comprendere che la ricerca spasmodica di una soluzione univoca è insensata a fronte di una realtà che è un’equazione indeterminata ad una sola incognita con infinite radici. E quell’incognita è proprio il Diavolo che da questa nuova prospettiva rappresenta esso stesso una vittima del “sistema”, costretto a fare del male contro ogni sua naturale inclinazione: condizione d’esistenza dell’equazione mondo.
Tale è il capovolgimento dei principi morali che una nuova venuta di Cristo nell’Europa della Grande Inquisizione rappresenta un fastidio, una fonte di disturbo dopo secoli che gli uomini hanno faticato per raggiungere un equilibrio in cui si inchinano a chi dà loro il pane, a chi può dimostrare coi miracoli l’esistenza di Dio. In questa prospettiva il Diavolo rappresenta la vera guida, il vero rappresentante del bene, di bianco vestito, di contro al grande Inquisitore che col suo mantello rosso e il suo ramificato bastone dorato rammenta l’iconografia del maligno. In un’atmosfera fatta di incenso e di luce tagliente al tramonto all’interno del sacrario militare si tiene un nuovo processo a Cristo in cui l’esito della prima biblica udienza si ripete di fronte ad un giudice che non si limita a lavarsene le mani. Dopo secoli impiegati a costruire una cultura di ubbidienza non è ammissibile che un nuovo Messia torni a moltiplicare la libertà degli uomini che non sono più chiamati a pronunciarsi su chi salvare tra Gesù e Barabba ma che restano come noi, intorno, semplici ed inermi spettatori. E’ la Storia che ci ha resi così, ed è la stessa Storia che ha così fatto morire la nostra Europa. Cristo è il nuovo Giuda disposto a cedere il testimone al diabolico Inquisitore, nuovo Messia designato con un biblico bacio finale. In una realtà in cui le leggi etiche sono state ridefinite non è più possibile stabilire se sia giusto o sbagliato condannare il nuovo Cristo. Resta solo da domandarsi se la nostra Storia da allora ha dato ragione a questa scelta.
Ad ogni singola battuta, con ogni suono, anche stonato, in ogni gesto, la regia della coppia Sangiovanni-Guidotti rivela la meticolosità, peraltro sempre immancabile, con cui è stata curata la drammaturgia a partire dai testi originali fino all’adattamento per un luogo che ogni volta ci impone un riverente silenzio. Le geometrie disegnate nello spazio sono molto precise e sono fortemente amplificate dalle ombre lunghe che la luce del tramonto restituisce, come se la stessa scena si sviluppasse contemporaneamente su piani diversi con un effetto caleidoscopico: come l’animo di ognuno di noi, conteso da emozioni contrastanti. Lo spettacolo è costantemente sostenuto da un ritmo crescente di sensazioni sovrapposte, fino ad un climax che negli spazi interni del sacrario capace di sconvolgere e di commuovere come forse altre volte la stessa Compagnia non è riuscita a fare, pur con testi e adattamenti non privi di pathos. La sensazione di sentirsi parte di un universo che si sviluppa tutt’intorno a noi sotto forma di rilievi boscosi e luce rigeneratrice diventa improvvisamente claustrofobica inadeguatezza per effetto di quella stessa luce così radente da riuscire ad accecare senza illuminare, tanto più perché diffusa dall’incenso che pervade l’intero spazio.
Il complesso programma drammaturgico è sapientemente interpretato dalle performance dei singoli attori tra i quali spicca Enrica Sangiovanni che ha saputo plasmare lo spazio scenico intorno a sé dal primo momento, includendo anche Gianluca Guidotti che con la sua recitazione dal ritmo più regolare e sincopato ha talvolta fatto fatica a sostenere il ritmo variabile dello spettacolo. Complessivamente molto apprezzabile anche l’esibizione degli altri attori in scena, a partire dalla piccola Antonia Guidotti che in chiusura controlla il movimento del protagonista lungo il cammino della vita con un lungo cavo come una moderna Parca.
Se la grandezza della letteratura si giudica dalla sua capacità di parlare alle generazioni anche a distanza di secoli, il lavoro fatto da Archivio Zeta ha il grande pregio di sviscerare un testo mettendo a nudo le radici che hanno condotto Dostoevskij a scrivere quelle memorabili righe. Radici che condividiamo perché saldamente aggrappate all’animo umano indipendentemente dalla propria sensibilità. Se ognuno di noi fosse un singolo atomo questo spettacolo riuscirebbe ad addentrarsi nel nucleo per rivoluzionare i rapporti di forza tra le particelle e ricostruirlo sulla base di nuove energie e nuove forme di attrazione e repulsione. Laddove si celebra la fine (tragica) della vita ha così inizio una rivoluzione della Natura umana che non partendo da una negazione ma da una presa di coscienza, può condurci ad una evoluzione di pensiero consapevole e duratura. Come il Cavaradossi pucciniano, di fronte ad un tale panorama di morte: “non ho amato mai tanto la vita”.