Archivio Zeta e Cortázar, la salvezza della parola nel labirinto dei diversi
Matteo Brighenti, Renzo Francabandera | 25/08/2017 | PAC
MB: La ragione del potere genera mostri. Il Minotauro è il fondamento del regno di Minosse su Creta, è la fonte della sua sovranità. E radice, insieme, di un fruttuoso albero genealogico, se è vero che con la vittoria di Teseo sulla creatura inizia il predominio dei Greci nell’Egeo.
RF: E sugli antichi Greci, fra storia e mito, morale ed eredità culturale, Archivio Zeta, il sodalizio formato da Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, che sempre più sta assumendo una struttura di famiglia d’arte, come nella grande tradizione capocomicale italiana, ha detto molto negli ultimi anni. Lo ha detto partendo dal bellissimo spazio alla Futa, dove da 14 anni propongono nel cuore dell’estate la loro nuova produzione. Negli ultimi anni il confronto con il classico si è fatto sempre più riflessione con il presente, riflettendo sulla struttura del potere e sulle sue forme.
MB: Il mito classico per Archivio Zeta è allora una corda di ieri che più si tira e più il nodo si stringe intorno all’oggi. Il Minotauro – nel labirinto di Julio Cortázar smaschera falsità e pericolosità del potere: l’essere metà uomo e metà toro è l’incarnazione del ‘diverso’, l’ ‘irregolare’ che l’autorità considera e rappresenta, invece, come una ‘bestia’, è il poeta che non riconosce altro dominio all’infuori del libero pensiero creativo. È una minaccia all’ordine costituito e per questo viene imprigionato nel labirinto.
Un mistero imprendibile per i Minosse e i Teseo.
RF: Ma il tema del barbaro, dello sconosciuto che ci bussa alle porte, ci proietta istantaneamente col pensiero sulle coste del Mediterraneo di mille e mille secoli dopo, e mentre Guidotti Teseo arriva alle porte di Masella Minosse, avvertiamo la logica di un eterno incontro scontro fra civiltà dove i potenti hanno assai più agio a comprendere come mettersi d’accordo per preservare i rispettivi interessi, mentre i loro popoli sono costretti al sacrificio umano: allora era quello dei giovani inermi pronti anche a guerreggiare per mantenere la vita e il proprio sistema valoriale antico, oggi è quello di giovani inermi, pronti anche a guerreggiare per mantenere la vita e il proprio sistema valoriale antico. Neanche li vediamo, arrivano di notte sulle spiagge poi si dileguano in qualche modo, cercando la sopravvivenza disperatamente, nel Mediterraneo come nel deserto dell’Arizona al confine fra Messico e USA (ci permettiamo qui di segnalare come imperdibile per ossimoro di medium ma non di poetica e intenzione la bellissima esperienza in realtà virtuale Carne Y Arena di Iñárritu a Fondazione Prada, Milano)
MB: Così, il Minotauro qui è una presenza resa costantemente assente: si avverte, si sente, ma non si vede mai. È dappertutto e in nessuna parte del Cimitero militare germanico del Passo della Futa, il “teatro di Marte” sull’Appennino Tosco-Romagnolo della Compagnia di Guidotti/Sangiovanni. L’ispirazione viene dal “poema drammatico” I re di Julio Cortázar (1949). Lo scrittore argentino rilegge la celebre storia antica non negli avvenimenti, ma nelle relazioni. Archivio Zeta offre al testo una recitazione piana, squadrata, solenne, in conflitto continuo con la fatale immutabilità del destino. I personaggi dialogano sempre e solo due a due: il confronto ha linee espressive e geometriche chiare, rocciose, un gioco di specchi replicato di volta in volta.
RF: Forse un allestimento meno barocco e “scenografico” rispetto ai precedenti, in cui la solennità del luogo veniva sfruttata con un piglio molto più votato al sentimento architettonico che fin dall’inizio avevamo enfatizzato nel linguaggio di Archivio Zeta. Qui il recitato fin dall’inizio vuole diventare trasposizione simbolica, cercando l’ibridazione fra umano e animale, con il labirinto/lumaca, la giottesca invidia che fa venir fuori la serpe dalla bocca di un’Arianna ora adulta (Enrica, stoicamente costretta alla recitazione da seduta per un brutto infortunio), ora bambina (la piccola Antonia). Alla fine il Minotauro, invece che divorare i bambini, li preserva dalle bruttezze del mondo, li salva in una cattività che è in fondo un parco giochi mentale, mentre il labirinto diventa paradiso terrestre surreale, figlio di Borges, in cui il corpo della presunta “bestia” è abitato dallo spirito fanciullino (notevoli gli elementi scenici di Francesco Fedele, oltre che il prezioso e mai banale tessuto sonoro di Patrizio Barontini).
MB: Il sole è duro e anche il cielo lo è, scrive Cortázar. È il segno di un fato che rinchiude e opprime. Allora, i costumi dei sovrani dell’isola, Minosse e Arianna, sono grigi come le lapidi del Cimitero, screziati però da manti rossi, la ruggine del labirinto, che ognuno si porta addosso.
Ciro Masella è Minosse, percorre accigliato una struttura circolare in legno, e misura l’orizzonte con una sorte di sestante: aspetta da Atene la nave con il tributo di vittime (presunte) da dare in pasto al Minotauro.
Il re si rivela prigioniero del suo prigioniero. La sua autorità è rinchiusa con il ‘mostro’ e il dedalo lo separa anche da Arianna, la figlia, proclamata regina, agita da Enrica Sangiovanni. I due si incontrano in un rettangolo d’erba, sui lati di una porta di metallo, le facce dell’esistenza che dà senso al loro parlare: per lui un’anomalia da reprimere, per lei un fratello da amare.
Siamo ancora alle pendici della collina, oscilliamo intorno al sacrario come un pendolo. Il tempo si compie con il Teseo di Gianluca Guidotti. Risale tra le tombe, onde immobili del viaggio eterno della morte, e ci guida fin sulla cima. Di bianco vestito, una vela nera sulle spalle, due coltelli in mano: è qui per uccidere il Minotauro.
RF: Ma chi è questo Minotauro? Ben presto assume le sembianze del pretesto per normalizzare la società, imporre un controllo con la forza. E mentre i potenti si accordano, i deboli vedono restingere gli spazi della libertà d’azione. Una condizione che viviamo sempre più, spaventanti dai minotauri che ci assediano, che battono alle porte per nutrirsi del nostro sangue.
MB: Minosse e Teseo sono i re che danno il titolo all’opera di Cortázar: il potere affronta se stesso nel delirio di maschere e atti omicidi. Eppure, il mito o si accetta o si sconfigge con le parole, non certo con il ferro. Il Minotauro muore, ma Archivio Zeta ci dice con incrollabile fermezza che il poeta in lui rinasce comunque, nel ricordo. Più radicato del nome dell’assassino.
RF: L’allestimento è evocativo e lirico come sempre qui alla Futa, imperniato, in questi spazi aperti, nelle capacità analitiche della regia sulla forma teatrale che si esaltano, in particolare modo, con la riflessione fra senso e suono della parola e accoglimento dello spettatore, parte integrante dell’opera: ora naufrago, ora assemblea, ora bambino chiamato a scoprire la verità, che a volte è proprio dietro l’angolo, e di cui non occorre avere paura a priori. Veniamo messi in guardia, da Archivio Zeta, sulla rinuncia a guardare oltre, a cercare una nostra verità, in balìa di violenze orchestrate sopra le nostre intenzioni e che nascono da colossali quanto volute carestie di confronto, da siccità forzate di risorse spirituali.