La domanda è semplice: tutto è linguaggio—oppure no? Come a dire, viviamo per reazioni spontanee o per sistemi acquisiti?
Julio Cortázar potrebbe rispondere:
Sapere una cosa non è come ascoltarla. Sapere senza parole, la cosa stessa in un tutto con il cuore, ci protegge dalla sua immagine come uno scudo.
Ad esser precisi lo farebbe dire ad Arianna, la famosa Arianna del filo, figlia di Minosse, re di Creta, quello del labirinto e del Minotauro per intenderci. Siamo ne Los Reyes (1949), riscrittura teatrale metalinguistica del celebre mito greco. Ma—cosa vuol dire metalinguistica? Vuol dire che lo scrittore argentino non altera tanto la storia o la traspone in ambientazione novecentesca, no, egli rispetta lo stesso itinerario narrativo però lo cala nell’intrico di quelle sovrastrutture socioculturali che chiamiamo linguaggio.
La penetrazione del labirinto si trasforma allora in processo di crisi: più dovrebbero essere chiari cause effetti e conseguenze più Cortázar ne manomette l’ordinaria consequenzialità, dispiegando lo spazio del mistero—mistero che è appunto l’esatto opposto del linguaggio.
E quale luogo migliore della spirale di lapidi del cimitero militare germanico sul passo della Futa per inerpicarsi nel labirinto de I Re? Stiamo parlando de Il minotauro.Nel labirinto di Julio Cortázar, il nuovo spettacolo di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni, in arte Archivio Zeta, andato in scena, come da quattordici anni a questa parte ormai, sull’appennino tosco-emiliano dal 5 al 20 agosto (loro la produzione, con contributo della regione).
Sei scene sei stazioni, itineranti, dai piedi del cimitero fino alla cima, in un’ascensione progressiva alla risoluzione dell’enigma, cioè all’uccisione del mostro. Varrà subito la pena ricordare che «mostro», etimologicamente, sta per «prodigio» non per essere orrorifico. Il mostro è colui che non rientra nella natura, nel nostro caso—nel linguaggio. Il mostro insomma è ciò che non riusciamo a spiegarci.
Non solo. Già, perché «Minotauro» significa, propriamente, «toro di Minosse». Cornuto e mazziato, il povero Minosse: la creatura intitolatagli figlia sua proprio non lo è, visto che è nata dall’unione carnale di sua moglie Pasifae con il toro albino di Poseidone.
Ma qui l’arguzia di Cortázar si fa sopraffina.
MINOSSE Io dovevo rinchiuderlo, sai, e lui si vale del fatto che io dovessi rinchiuderlo. Sono il suo prigioniero.
Il re cretese (Ciro Masella) non incarcera infatti il mostro-prodigio-mistero per nasconderlo, al contrario: è il «mistero» che per sua stessa natura non può che essere nascosto. Per questo tra le balze della Futa la sua presenza rimarrà solo una voce. Il Minotauro è un «artificio», è «fratello» del labirinto, è figlio dei «sogni» di Minosse. Così Arianna (E. Sangiovanni, costretta all’immobilità per un infortunio durante le prove) al padre:
ARIANNA Tu stesso, che cosa vedi del giorno se non la notte, la paura, il Minotauro che hai tessuto con i fili dell’insonnia? Chi lo rese feroce? I tuoi sogni.
Egli è il toro «di Minosse», dunque, perché è Minosse stesso a dargli sostanza; lo rinchiude in un labirinto perché non possa essere “risolto”; gli offre in sacrificio degli adolescenti (dei pre-letterati) perché con la loro ingenuità «lo» e «si» mantengano in vita. Insomma, il Minotauro esiste perché lo fanno esistere gli altri. Come i misteri. O come le parole e i loro significati: che apprendiamo dall’uso altrui, avvaloriamo ripetendoli, assolutizziamo adottandoli incondizionatamente.
Ecco che allora, inevitabilmente, Teseo (G. Guidotti) assurgerà a eresiarca. Uomo d’azione, egli non si ferma a pensare, va’ e uccide. Problema—soluzione.
MINOSSE Si vede come ti modelli sulla tua volontà […] Non sei venuto a morire; la tua presenza altera l’ordine sacro.
Se Teseo non indugia, giacché non si interroga, una questione tuttavia gli rimane aperta:
TESEO Ho un problema: uscire dal labirinto. […] Si intende che questo sarà dopo aver ucciso il mostro.
Ciò comincia, sotterraneamente, a incrinarne la risoluzione: non tanto nell’agire, ché il coraggio è prerogativa dell’eroe, ma nel farlo irruentemente. A ogni azione corrisponde una reazione. Si può entrare in un labirinto e “tagliare la testa al toro” senza grandi pensieri, ma poi ucciso il mistero, cos’è che rimane? Sconfessato il labirinto, per dove si va?
TESEO Io non so di enigmi. Io vado all’attacco.
MINOSSE È una soluzione. Quanti soccombono agli enigmi credendoli materia di sottile disamina, rispondendo con parole all’opera della parola. Ma dovevi ucciderlo?
TESEO È sulla mia strada, come gli altri. Tutti loro mi intralciavano.
MINOSSE È strano. Ognuno si costruisce il proprio sentiero. È il proprio sentiero. Perché, allora, gli ostacoli?
Quando infine, un giro dopo l’altro, ci avvicineremo al centro, mentre le mura della Futa si alzano e si spezzano in linee sempre più appuntite, il confronto tra eroe e mostro avrà la forma di uno scontro impossibile. Le parole del Minotauro giungono da dietro l’angolo, Teseo, filo alla mano, avanza piano lungo la parete, infastidito e irretito da quell’enigma fatto di sola voce:
TESEO Fai domande vane. Non so nulla di te: questo dà forza al mio braccio.
MINOTAURO Come potresti colpire? Senza sapere chi, che cosa.
TESEO Se mi attardassi ad ascoltare, forse poi non potrei più ucciderti. […] Si parla già tanto di te che sei come una vasta nube di parole, un gioco di specchi, una ripetizione di racconto inafferrabile. […]
MINOTAURO Sembra come se tu guardassi attraverso di me. Non mi vedi con i tuoi occhi, non è con gli occhi che si affrontano i miti. Neppure la tua spada mi si addice. Dovresti colpire con una formula, un salmo: con un altro racconto.
E attraverso la parola «mito» – invisibilmente – il Minotauro dà, egli, il colpo di grazia a Teseo. Perché cosa gli sta dicendo? cos’è questo mistero, poi? È un invito a non irrigidirsi nel linguaggio. L’uomo alla fin fine è quell’animale che cerca di lasciare una traccia di sé nel tempo, è colui che attenta alla “deindividualizzante” ciclicità della natura e osa tracciare una storia, tale per cui esista un «prima» e un «dopo». Siamo nel cosiddetto passaggio dal mythos al logos. Dalla voce al linguaggio. Dall’accadimento alla successione.
Così, Teseo, di fronte al mistero, tra l’accoglienza totale di Arianna e le interpretazioni senza soluzione dei suoi retori ateniesi, opta per la soppressione—del mistero, condannandosi a una vita in continua ricerca di affermazione:
MINOTAURO […] giovane re […] Non mi hai ancora domato. E non sai che morto sarò diverso. Peserò, Teseo, come una immensa statua. Corna di marmo si affileranno un giorno contro il tuo petto.
TESEO Smetti di parlare e deciditi.
MINOTAURO Morto sarò più io… Oh decisione, necessità ultima! Ma tu ti sminuirai, conoscendomi sarai meno, andrai precipitando in te stesso come si sgretolano a poco a poco i dirupi e i morti.
TESEO Almeno starai zitto.
MINOTAURO Sì, per lasciarti ascoltare. Resterai qui, solo fra le mura, e là in alto mare.
Sarà il Minotauro a concedere il colpo mortale a Teseo, ma sarà «colpo goffo», male assestato. Rivelando che piccola cosa sia, dopotutto, essere un eroe.
TESEO Taci! Muori almeno tacendo! Sono stufo di parole, cagne assetate! Gli eroi odiano le parole!
MINOTAURO Salvo quelle dei canti di gloria…
Voltata l’ultima balza, giungiamo infine al cuore del labirinto. Ormai evaso. I giovinetti ateniesi offerti in sacrifico al mostro, infatti, sono vivi, e piangono la morte del Minotauro, che non c’è, che non c’è mai stato, e che proprio il suo esistere non essendoci ha tutelato la vita di quei fanciulli. Quel mistero morente li inviterà a non ricordare, conservando l’astoricità della propria esistenza, negando cioè l’ordinamento nel tempo, nei prima e nei dopo, nel logos.
MINOTAURO Ma non bisogna ricordarmi. Non voglio quel ricordo. Il ricordo, abitudine insensata della carne. Io mi perpetuerò meglio.
CITARISTA Come dimenticarti?
MINOTAURO Lo imparerai, ti attende una vita intera per l’oblio. Non voglio pianti, non voglio immagini. Solo l’oblio. E allora sarò più io.
Dopo averli custoditi nei misteri del sacro, li guarda dall’ortodossia della verità. Il linguaggio ci fa solo nominare le cose, non ce la fa conoscere. Ecco “le ragioni” del mito. Ecco perché il fallimento tutto moderno del nostro borioso progresso, figlio di quel logos.
Archivio Zeta, dunque, attingono a Cortázar e lo riversano in quell’eloquenza di morte che è il cimitero germanico della Futa. Mirabilmente, tutto è già dato eppure sfugge. Vi si cerca qualcosa che si sottrae e che in quello scarto lascia a intendere. È il camminare circolare di Minosse, la spirale labirintica sulla sua veste, la porta metallica vibrante tra sé e Arianna che non ha bisogno di pareti attorno per suggellare una distanza generazionale (tra chi alimenta il mito, struggendovisi, e chi vi vive); è il miraggio di una donna in controluce che si aggira sulle mura (Carolina Giudice), è una scalinata in ascesa e discesa tra vecchio re (Minosse) e nuovo re (Teseo), è la gabbia vuota del mostro-Minotauro da cui risuona spandendosi una candida voce di bambina.
Inevitabilmente, la – impropriamente detta – recitazione prende le distanze da qualunque intimità, realismo o caratterizzazione: si solleva in alto, fende l’aria con toni gravi, solenni, che superano la spettacolarità rincuneandosi nella dimensione del mito. Sembra un «dis-dirsi» à la Carmelo Bene, dove l’attore scompare, l’azione si libera da qualunque fine, tutto è già avvenuto—pertanto può esserci l’accadere. Forse però a questa ricerca attorale manca ancora una certa musicalità, un’incisività che non rischi di confondersi con l’algida declamazione.
Perché quel dispiegamento del mito – quel ritorno “nel” mito, emancipato dal significare delle parole, da un pensare che è frutto (e non alimento) del logos-linguaggio – compia pienamente ciò che il prodigio misterico chiamato Minotauro suggerisce a Teseo:
C’è solo un mezzo per uccidere i mostri: accettarli.