Macbeth e Heidegger al Cimitero militare germanico
Massimo Marino | 17/08/2016 | Doppiozero
Sembra di essere nella brughiera scozzese, qua sui monti d’Emilia. Specie se la giornata è fresca, come capita in questo agosto. Prati rasi. Un odore che all’inizio non sai bene identificare. Un cerchio di monti intorno. Un lago (Suviana?) sullo sfondo. Qualche fiore viola. Qualche ghirlanda funebre secca tra le distese di pietre tombali allineate, che conservano i resti di soldati nati, in gran parte, nel 1924, nel 1925, e morti nel 1944-45 sulla Linea Gotica, sotto le bandiere del Führer.
Un’altra violenza in scena nel silenzio odoroso (ma cosa sarà quell’odore?) del Cimitero militare germanico della Futa, sotto la grande ala spezzata a mosaico di tessere di pietra del sacrario, un po’ nibelungico, sul culmine della collina. “Heil Macbeth”, salutano i messaggeri, dopo che le arcane sorelle, le streghe, come pipistrelli, come incappucciati del KKK, hanno fatto la loro profezia e si sono allontanate: “Macbeth, sarai re”. Cicale. Un rumore di motore in lontananza, attutito. Suono leggero di marimba.
Macbeth di Archivio Zeta va in scena in modo itinerante nel luogo che la compagnia di Firenzuola (ora residente a Bologna) ha scelto da anni per installare il suo fantastico teatro elementale d’agosto: quel sacrario dei morti invasori, luogo di memoria dell’orrore e di pietà, dove la tragedia, ogni tragedia, assume un senso particolare. Dopo un lungo viaggio alle origini, in Eschilo, nel Prometeo e nell’Orestea, dopo un’escursione negli Ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus e nel Pilade di Pasolini (che continuava il discorso dell’Orestea, e in particolare quello delle Eumenidi), questa volta è Shakespeare. Subito sottotitolato, con una strizzata d’occhio a Heidegger, Essere (e) tempo.
Un assassino nel luogo dei carnefici. L’oscuro che emerge nell’uomo, come nel Pilade le furie che insidiano la (fragile) democrazia della ragione. Ma non solo. Macbeth come figura del tempo, antieroe di un tempo liberato dall’autorità, dai valori antichi, dalla centralità, dall’universo tolemaico geocentrico. Macbeth come nuovo protagonista di un tempo libero, copernicano, dove ogni volta bisogna ridefinire la posizione, sempre relativa; di un tempo moderno.
Il mantello che Lady Macbeth indosserà – all’ombra del sacrario, dopo che il pubblico è stato condotto verso la cima della collina, dove si vedranno varie altre stazioni della tragedia – è all’inizio un telo contenuto in un cerchio metallico. È decorato con uno strano disegno a ragnatela, con un centro rosso simile a bersaglio e una sagoma stilizzata di città. Guardando il programma di sala scopriamo essere la mappa di volo di Enola Gay, l’aereo che sganciò la bomba su Hiroshima, uccidendo oltre 200.000 esseri umani, ma ponendo fine alla guerra mondiale. La nuova forza dell’atomo. Benvenuti nella contemporaneità fluida, tempi in cui i valori non sono mai tutti bianchi o tutti neri.
“Fair is foul, and foul is fair” ripetono le streghe, e Archivio Zeta (Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni, che firmano drammaturgia e regia e danno corpo a Macbeth e alla sua Lady) traduce, esplorando tutti i sensi della frase: “Il bello è brutto e il brutto è bello / il giusto è criminale e il criminale è giusto / l’acconcio è sconcio, lo sconcio è acconcio / caos è armonia e armonia è caos / limpido è torbido e torbido è limpido / la grazia è colpa e la colpa è grazia / il giusto è osceno e l’osceno è giusto…”…
Macbeth o del tempo nuovo
Questo Macbeth si snoda tra varie stazioni, essenziale fino alla ruvidità, barbaro e postmoderno come noi, politico in modo originale perché filosofico. Non è solo, scrivono gli autori, “una tragedia del e sul potere e sulla potenza ma una riflessione sulla possibilità, sull’uomo in potenza: tempo libero e tempo liberato dalle certezze, l’uomo non più centro ma immesso nel vuoto di orbite sconosciute”.
Tempo nuovo, tempo e paura, tempo che fa paura. Ancora Heidegger, a epigrafe: “L’esserci, (l’essere umano) compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso”. Tempo rivoltato. Tempo in cui le orbite sono ridisegnate e l’uomo naviga alla deriva di un navicella impazzita nello spazio (qualcuno forse ricorda la scena del carnevale del Galileo di Brecht, dove i popolani grottescamente recitavano il moto dei cardinali come ubriachi su una terra in movimento nei cieli, secondo le teorie di Galilei).
Guidotti e Sangiovanni lavorano sul testo e sul suo elemento fondamentale, testimoniale, sulla parola, liberandosi dalle tante suggestioni che l’opera porta con sé alla memoria, cercando nelle frasi, asciugate, portate a nudità, la radice di azioni tanto frastornanti da diventare essenziali, quasi statuarie, sempre con quel bordeggiare di cicale, o con il suono caldo del clarinetto, o di percussioni dolci, intonate o stridenti (le belle musiche sono di Patrizio Barontini), con quell’odore di montagna di fondo che ancor non sai identificare. Arriva la notizia della morte del re Duncan e tu aspetteresti uno scoppio di dolore simile al coro verdiano e invece parte la controscena del portiere, in un falsetto spinto, interpretato dallo stesso attore che faceva il re assassinato, un formidabile acquisto per la compagnia, il sensibile, versatile Ciro Masella. Era steso su un letto di ferro, una scala smontata, uno strumento di tortura come sovrano, e riemerge dall’altro lato, come un insinuante, insofferente, popolare folletto, un altro dei fantasmi di questa forma-sonata. Arriva la scena del sonnambulismo e anche qui riaffiora Verdi nelle orecchie e invece ascolti parole scarne, con la Lady che arriva da lontano, con un grande uovo sul petto, che via via si illumina (il germe del mondo, del desiderio di potere?). Senti Macbeth invocare l’armatura, per ricoprire il suo vestito a pezze, e materializzi con la fantasia la voce di Carmelo Bene in Macbeth Horror Suite: ma anche questa volta siamo lontani, con la cantilena di Guidotti che dà valore a ogni parola, scavata, scarnificata, resa quasi una formula magica, una litania speculare e contraria a quella delle streghe.
Le parole, lo spazio, le immagini. Ogni elemento è asciugato, portato ad ascetica sobrietà, e incrociato con l’altro, in dialettica, in relazione tra temi susseguenti o contrastanti, reso vibrante, elettrico, da questi cortocircuiti. È il segreto di uno spettacolo che durante la stagione prossima sarà adattato per i teatri, e siamo curiosi di vedere cosa ne sortirà (è una coproduzione Archivio Zeta – Elsinor).
Intanto ne ricordiamo, per sprazzi, le suggestioni, sempre tra quei monti che a poco a poco cambiano luce, diventano oscura corona. Gli attori ce li fanno vedere da prospettive diverse, fino al tramonto nell’aria fine. Un cane, simile a un husky, al guinzaglio, le streghe come parche, come uccelli notturni di questa lunga notte della coscienza, l’apparizione di un corteo contadino con un trono vuoto, che tornerà in varie scene, portato sulle spalle, poche volte occupato da qualcuno, segno dell’instabilità, come l’uovo è immagine della perfezione che può schiudere qualsiasi cosa, anche il suono e la furia raccontati dalla voce di un idiota, ossia la vita. Il misterioso cerchio con telo Hiroshima che diventerà mantello della sanguinaria Macbeth, una Sangiovanni incisiva, strega più delle streghe, evocatrice di spettri interiori, solenne, ironica, feroce, con parole che tagliano più di spade. Le lancette di un orologio (il tempo che incalza, il nostro tempo, misurato, scandito, moderno) che diventano spade, pugnali, per i delitti, per la nuova canalizzazione del tempo. L’assassinio di Banquo e la riapparizione del fantasma, nel desinare in quel solito cerchio, ora un buco nero trasformato in tavola (Banquo è il solido Stefano Braschi, suo figlio il giovanissimo Elio Guidotti), verso le dissonanze dell’assassinio. L’orologio spezzato, di un tempo sovvertito, in cui l’ospitalità si tramuta in delitto. Le profezie ingannatrici di Ecate e il finale davanti a una fila di alberi al tramonto che indora il cielo e finalmente capisci che quell’odore è di timo limoncello, delicato e penetrante.
Una favola piena di rumore e furia, che non significa nulla: gli alberi sono immobili, la foresta della Futa non si muove come quella di Birnam, ma è la parola che riverbera in eco, si spezza, si frange, si moltiplica ritornando indietro dai valloni. Aura alla tragedia. Un messaggero (Alfredo Puccetti), un altro dei contadini che costituivano questa corte di brughiera, il contemporaneo con l’anima antica, racconta la fine, la foresta che si muove, il nemico che incalza. Macbeth: “Comincio ad essere stanco del sole / vorrei che la struttura del mondo fosse distrutta… / (campana d’allarme) Soffia vento, vieni rovina! / (tamburi) / M’hanno legato ad un palo / non posso fuggire; ma come l’orso debbo sostenere l’attacco… / Chi è che non è stato partorito?”. Macduff (vincitore): “Il tempo è liberato”, libero di esplodere nella nostra disperata, inane, ricerca di potenza, incapacità di dare un sopra e un sotto a parole come bene e male. Sarà migliore il nuovo tempo? O peggiore? O semplicemente mediocre?
Grumi di immagini, di sensi, di parole, di vento sottile. Applausi. Commozione. Silenzio.
Incompiuto: un libro
Questi spettacoli Archivio Zeta li organizza da anni in modo assolutamente indipendente (ossia nella quasi totale assenza di finanziamenti pubblici). Si è creato un proprio nutrito gruppo di fedelissimi, tra Bologna, l’Appennino e la Toscana, e riempie ogni serata con circa duecento spettatori. Un piccolo miracolo che ha proiettato l’interesse di vari teatri e centri teatrali su questa compagnia, formatasi alla scuola di Luca Ronconi, ma soprattutto a quella del rigore di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (con un particolare amore per la scabra metafisica poesia dei film di Robert Bresson). Macbeth è coprodotto, come abbiamo visto, con Elsinor; la prima parte del lavoro è stata svolta in residenza al Teatro delle Moline di Ert e in spazi dell’Itc di San Lazzaro di Savena (Bologna). In primavera la compagnia sarà impegnata in un Pluto, da Aristofane, che coinvolgerà (non sappiamo ancora come) la comunità cinese di Prato, in una produzione con il Metastasio. Intanto continua un rapporto ormai triennale con Volterra Teatro, dove è stata realizzata una tappa preparatoria del Macbeth ispirata a Faulkner e alla conquista dell’America (l’assunto era che quest’uomo sbrigliato dalle regole che vediamo nella tragedia di Shakespeare è un antenato dei conquistatori).
In parte in autoproduzione la compagnia ha stampato un volume che ripercorre l’esperienza del Pilade, un lavoro lungo un anno, in varie tappe, con professionisti e gente comune, tra l’Emilia e Volterra. Archivio Zeta aveva lanciato inizialmente un crowdfunding, raccogliendo la cifra desiderata. Poi è intervenuto un editore, i Fratelli Lega di Faenza. Ne è venuto fuori un volume elegantissimo e molto utile, con la cura di Rossella Menna (che scrive una importante introduzione, che fa entrare, con passione, nella bottega del gruppo). Comprende saggi, racconti, critiche sullo spettacolo finale e sulle tappe di avvicinamento, ma soprattutto un racconto fotografico di notevole valore, firmato da professionisti come Franco Guardascione, Guido Mencari, Stefano Vaja, ma pure da tanti altri fotografi e comuni spettatori che hanno mandato i loro scatti, a volte effettuati semplicemente come ricordo con un cellulare. Ne sortisce un’altra epica che – per narrare la vittoria sui mostri Furie e la ribellione all’avvento di una nuova città razionale e neocapitalista del testo di Pasolini – inizia dai sassi, dalla nuda terra, da cimiteri, luoghi della lotta partigiana, fabbriche in ristrutturazione, monti, ville neoclassiche trasformate in centri di raccolta di migranti. Passa poi per stanze affrescate di conferenze, si sposta su Bologna, dentro Bologna, e finisce tra i cumuli di rifiuti e i palazzi svettanti di una parte di città in costruzione, quella intorno al Comune nuovo del capoluogo emiliano. Come nella foto di copertina, occhi di case future, detriti, una sedia e un leggio vuoti, un muro spezzato. Un’assenza e un futuro, come il rievocare il mito. Come metterlo a dormire al nostro fianco, sotto i nostri cuscini di oggi, per farci illuminare, per tormentarci i sonni, i sogni, per risvegliarci. Incompiuto, si chiama il libro. Come il Pilade, come sempre il lavoro di immaginazione, di reinvenzione.
Macbeth va ancora in scena fino al 20 agosto al Cimitero militare germanico della Futa. Informazioni qui. Con Stefano Braschi, Francesco Fedele, Carolina Giudice, Antonia Guidotti, Elio Guidotti, Gianluca Guidotti, Ciro Masella, Giuditta Mingucci, Alfredo Puccetti, Enrica Sangiovanni e con la partecipazione straordinaria del cane Oscar. Partitura sonora Patrizio Barontini, percussioni Luca Ciriegi, fiati Gianluca Fortini. Scenografie e costumi Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni. Produzione Archivio Zeta e Elsinore.