“Yoknapatawpha”, la traversata di Archivio Zeta da Shakespeare a Faulkner
Matteo Brighenti | 04/08/2016 | PAC
MATTEO BRIGHENTI | In centro a Volterra e in mezzo all’Atlantico. Con Archivio Zeta, Compagnia che ha fatto della parola sull’orlo dell’abisso la sua violenta partigianeria, è possibile, perché vedi il mondo intorno a te attraverso i loro occhi, gli occhi del racconto. Seguiamo una vela sulle ruote, una croce al vento, e le vie dell’antico borgo etrusco diventano onde, mare, viaggio. Nelle cuffie, bagaglio sensoriale che ognuno ha ricevuto prima di partire, l’acqua sciaborda, le cime stridono, mentre i passi si affrettano. La città ci guarda come alieni, come gli indiani devono aver guardato Cristoforo Colombo.
Alla testa di questa processione, però, febbre di scoperta e conquistata, c’è Macbeth e non il navigatore genovese, abbiamo levato l’ancora dalla Scozia e approderemo a Yoknapatawpha (ioknapatofa), che in lingua Chickasaw significa “terra divisa”, da Yacona e Petopha. Si tratta di una Contea immaginaria che tuttavia ripropone le principali caratteristiche della Lafayette Conty, la regione del Mississippi in cui William Faulkner ha vissuto, ed è lo sfondo comune della grande saga sudista creata dal Premio Nobel (1949), un fitto reticolo di microstorie sul quale incombono i grandi, spesso tragici, eventi che hanno segnato la vita del Sud degli Stati Uniti.
Per Archivio Zeta, dunque, il Vecchio Mondo è un’ombra che cammina dietro una vela di morte, solca mari di sangue e fonda un Nuovo Mondo diviso dalla colpa. Una traiettoria grandiosa e furiosa da Shakespeare a Faulkner che a VolterraTeatro Festival 2016 si dispiega nel dittico da Yoknapatawpha, Terra Divisa, un percorso itinerante e simbolico in cui Gianluca Guidotti, Enrica Sangiovanni e una schiera poetica di ottanta persone, tra adulti, ragazzi e bambini, ci guidano dalla Fortezza Medicea al Teatro Persio Flacco. Un preludio in data unica (29 luglio) al loro primo Shakespeare vero e proprio, il Macbeth, al debutto (6-20 agosto) al Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa, sull’Appennino tosco-emiliano.
Per il terzo anno consecutivo, dopo le creazioni collettive La Ferita e Pilade/Campo dei rivoluzionari alla Salina di Saline di Volterra, VolterraTeatro ha sostenuto, nel corso dei mesi invernali, il laboratorio permanente Logos di Archivio Zeta, che si è interrogato su Big Woods (Grandi boschi), celebre raccolta di racconti di caccia e formazione di Faulkner (il bosco ritorna anche nel Macbeth con l’immagine della foresta di Birnam che muove contro il re assassino). Il lavoro è preceduto da Sound and Fury (L’urlo e il furore) e vede impegnati, invece, i cittadini-attori del laboratorio che Guidotti e Sangiovanni hanno tenuto parallelamente a Bologna. Il titolo dell’omonimo romanzo di Faulkner, stavolta, è una citazione diretta di Macbeth: “[Life] it is a tale / Told by an idiot, full of sound and fury / Signifying nothing (“[La vita] è una favola / narrata da un idiota, piena di rumore e furia / che non significa nulla”).
Il varo in carcere
Lasciata Enrica Sangiovanni, vestita di nero, per lutto o martirio, in un’insenatura della rampa della Fortezza Medicea, il carcere di Volterra, veniamo attratti da una canto di donna. Affacciata come da un balcone, un parapetto di pietra, la donna vara Yoknapatawphaproferendo l’introduzione a Sound and Fury scritta da Faulkner nel 1933: “avevamo bisogno di parlare, di raccontare, perché l’oratoria è la nostra eredità”. Immerso in un generale senso di straniamento, il nostro microcosmo acquista le dimensioni di uno spazio mitico, all’interno del quale la ripetitività dei gesti antichi dettati dai cicli della natura si scontra con i segni sconosciuti e inquietanti del cambiamento che accompagna il lento, quanto a volte improvviso, incedere della Storia.
Una musica di gravicembalo ci accompagna sulla rampa, vicino a un portone bloccato da una trave di legno, davanti a cui sta ritto in piedi un uomo, Gianluca Guidotti. Il cappello di paglia, la camicia bianca, sembra un contadino, o meglio un fattore, vista l’aria che ha, pulita e per niente affaticata.
“Se tutto fosse fatto, una volta fatto, allora sarebbe bene che fosse fatto presto”. È addirittura un re, usurpatore e sanguinario. È Macbeth. “Immaginiamo il nostro Macbeth – scrivono i due attori e registi sul Ro.Ro.Ro. speciale per VolterraTeatro 2016 – come un uomo nuovo, un antieroe, portatore del giusto e dell’ingiusto, un Copernico, che sulla soglia tra Cinquecento e Seicento mette in discussione lo stato delle cose […]. Nel suo atto di togliere il mondo dalla sua posizione di centralità, l’uomo tenta la traversata oceanica, oltrepassa le Colonne D’Ercole, sfida la paura dell’abisso”. Il mondo a venire è ciò che lui immagina e crea.
La donna in nero di Enrica Sangiovanni, allora, è Lady Macbeth. I due si confrontano su geometriche direttrici di pensiero, la loro lingua è un incantesimo di sete di potere, avidità e senso di colpa. Lo sguardo fisso nell’altrove, la presenza perpetua nel passato, il tempo, qui, è tanto antico quanto transitorio. Macbeth non dormirà più perché ha ucciso il sonno uccidendo re Duncan nel suo: l’insonnia che lo abiterà è un sovvertimento dell’ordine naturale, per cui il bello è brutto e il brutto è bello, il colpevole è giusto e l’innocente è colpevole. In cuffia passa della musica, brani del Macbeth in inglese, Faulkner e le terre d’America, rifiutate, ripudiate dall’uomo, divise.
Gianluca Guidotti prende la trave di legno e la porta dal lato opposto del portone. La alza, la abbassa, sembra simulare il lavoro nei campi, sotto il controllo vigile, anche se distante, di Enrica Sangiovanni. Sta costruendo, stanno costruendo una vela, lui e un ragazzo vestito di nero, forse il fantasma del figlio che Macbeth e Lady Macbeth non possono avere. Un graffio d’oscurità travestita da candida civilizzazione.
I vigili fermano le macchine, il carcere torna soltanto carcere, e Yoknapatawpha inonda Volterra, al seguito di quella vela, sorta di striscia pedonale che unisce in cielo il Vecchio Mondo al Nuovo. Siamo dentro uno spettacolo che è dappertutto.
Il rito nella Pinacoteca
Ci togliamo le cuffie non appena arriviamo nel chiostro della Pinacoteca. Tre ceppi, un’ascia, un grande otre e un’anfora sospesa in aria è la scena che ci accoglie. Guidotti/Sangiovanni ‘escono di scena’ ed ‘entrano’ vestiti di bianco, scalzi, i cittadini-attori, che, seduti in cerchio, riaffermano con voci diverse ed ugualmente decise: “questa è la mia terra”. È un popolo che appartiene alla terra e non viceversa. Tra le mani stringono dei rami, le Colonne d’Ercole attraversate da Macbeth/Colombo, ma anche l’evocazione di un disboscamento e dei binari del treno che ha fatto indietreggiare la natura, prova della potenza allegorica di gesti, elementi, segni del teatro ‘espanso’ di Archivio Zeta. Insieme a noi è sbarcata in America la proprietà privata, questa è la carneficina, il patto di sopravvivenza tra uomini si muta in contratto di sopraffazione tra proprietari.
Lasciano cadere i rami e, rialzatisi in piedi, si passano di mano in mano delle piccole caraffe, brocche multicolore che erano attorno al grosso otre. Lavano i piedi a un anziano signore e l’acqua cola via verso il tombino al centro del chiostro. L’acqua che ci ha portato qui ora è lo spreco del padrone, del potere. Il tempo diventa spazio, lo spazio si fa racconto, e l’acqua va versata tutta, fino all’ultima goccia dell’ultima brocca. Il vecchio stringe un libro di metallo, la nuova legge deve essere tradotta al popolo, altrimenti è incomprensibile.
I suoi ‘sudditi’ hanno tutti le palme aperte lungo i fianchi e del colore di quelle di Macbeth/Colombo che ha mostrato prima nella Fortezza, sui toni ambrati del Sole e quindi suolo, agricoltura, sfruttamento. Dall’altro scende l’anfora sospesa, ultimo immissario di un rivolo di fiumi, i legni a terra (segno si aggiunge a segno in una sinfonia polisemica), che il governo vuole comandare con una diga.
Le piantagioni di cotone arrivano dritte in cuffia sul canto ritmato di schiavi senza nome. Ci passa accanto e attraverso, come abbiamo fatto noi in precedenza per Volterra, quel coro di esistenze che ha dato vita a una sorta di rito ancestrale di renitenza alla cattività, e si infila in una porta stretta. Ci facciamo avanti anche noi, uno alla volta.
Doppio epilogo in teatro
Seguiamo la loro silenziosa fila indiana, unita da un braccio sulla spalla, costeggiamo dall’alto il Teatro romano e da lì entriamo nel teatro della ‘modernità’, il Persio Flacco. Prima sul palco e dopo giù, in platea.
La finestra in fondo alla scena è aperta, noi siamo al buio più completo (la spessa notte caduta sull’uomo nuovo, per dirla con Guidotti/Sangiovanni), e dei cittadini-attori, schierati a mo’ di sipario, si intravede solo la silhouette. Sembra di essere in un quadro di un Hopper dark, il malvagio presente oscurantista ha chiuso il passo alla luce, che può filtrare solo da fuori, lontana e irraggiungibile. Eravamo tutti in palcoscenico, anche in strada, adesso siamo tornati attori e spettatori.
In principio era la parola, scandiscono, “Yoknapatawpha”, un’eco che rimbalza tra le voci, mentre scende un telo nero, che in controluce svela di essere il sipario dipinto del Teatro.
È adesso che arriva l’esperienza più forte delle due ore e mezza di esplorazione di Faulkner sulla mappa di Shakespeare, e viceversa: sul soffitto si accende una ‘pustola’, un uovo di Colombo, seme primigenio della sventura, vaso di Pandora composto non da acqua, non da terra, non da vita, ma da tutti questi elementi insieme, inestricabili e inesprimibili. È la monade di cui parla Leibniz, atomo spirituale che rispecchia in sé tutto il reale.
La fondazione quasi fantascientifica della nostra civiltà scende lenta da lassù e finisce nelle mani di un ‘tedoforo’ che la porta in processione come una reliquia. Quel seme acceso nella terra è lo stupro delle generazioni future.
Potrebbe finire qui Yoknapatawpha, quasi che della tragedia greca sia rimasto solo il coro della polis umiliata e offesa, e invece Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni aggiungono un’ulteriore parte in cui si spiega che la ‘pustola’ sono anche gli edifici, i palazzi della città che ora, su un contro-sipario, coprono la finestra.
Chiude un video live di Nina Simone che interpreta Mississipi Goddam (1964), una delle sue più famose canzoni di protesta, divenuta presto uno degli inni degli attivisti del movimento americano per i diritti civili.
Un cambio di registro, una virata al realismo che non aggiunge niente a quanto fin qui rievocato con il fare ‘epico’ proprio di Archivio Zeta, che solitamente chiede al pubblico lo sforzo di colmare il dettato della visione con la riflessione, l’intuito, la sensibilità propria, invece di aspettare dal palcoscenico l’arrivo di un significato fatto e finito.
Un passo in più che sembra allontanare la meta, indietreggiando sulla potenza ‘sciamanica’ del racconto di Yoknapatawpha e sull’investimento nella maturità del pubblico. Nel momento esatto in cui la meta, cioè la comprensione, è già ampiamente raggiunta.