Che differenza c’è tra usare la parola vita o la parola biodiversità? È una scelta come un’altra oppure sposta il baricentro del nostro focus? Se, probabilmente, i modi per raccontare l’uomo sono tanti quanti gli uomini, il linguaggio in particolare ci permette di rintracciarne i sedimenti: soprattutto se siamo mossi dalla pazienza di cercare anziché dall’urgenza di trovare.
Su questa direttrice si s-muove Dittico sull’essere umano di Archivio Zeta. Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti ne seguono i contorni, le forme, i rilievi, lasciano emergere un’archeologia umana segnata da pietraglie pesanti e interstizi di soffocata ironia.
Una scena oculatamente delimitata, la loro, e una presenza scenica assurta a metodo stesso di indagine, che danno inizio ai due spettacoli L’uomo e le cosee Edipo Re: l’uno presentato alla Limonaia di Villa Strozzi, l’altro al Teatro Cantiere Florida, riportando finalmente a Firenze la compagnia dopo molti anni di assenza, e per di più in un teatro al chiuso.
Il primo ha inizio dalla scrittura di Goffredo Parise con Il crematorio di Vienna del 1969 (ormai fuori catalogo), l’altro da una tragedia archetipica fuori dal tempo quale l’Edipo Re di Sofocle. Due strategie di ricerca nettamente distanti la cui stessa giustapposizione con metodo ha il merito di sgranchire la nostra mente sempre più retrattile. Dunque.
Un fatto. Un omicidio. Una colpa.
In entrambi si parte da un’azione, dichiarata in L’uomo e le cose, ignorata e ricercata in Edipo Re: uccidere otto persone, aver ucciso il proprio padre. Ma uccidere è un fatto, un omicidio o una colpa?
Bianco, accecante, asettico, lo spazio alla Limonaia è tagliato su quattro pareti che coincidono con dettagli ingigantiti di una discarica a cielo aperto fotografata da Franco Guardascione. Al Florida, invece, luci e ombre fortemente metaforiche segnano la passerella di legno (a forma di Y) al cui incrocio così simbolico Laio trovò la morte, e la cui estremità centrale termina con una soglia, un altro “al-di-là”, quello di Giocasta, con un trono vacante penzolante dal di sopra.
La recitazione di Sangiovanni e Guidotti batte in controtempo sulla storia: sottolinea i pensieri deduzioni certe e verità paradossali in Parise, ipotesi presunte e continue ricostruzioni in Sofocle , dà sostanza alle idee, ora taglienti ora gravidiche, scandisce le azioni, minime e calibrate.
È la parola, insomma, ad agire: a ricostruire e a smontare un essere umano che, da un lato, è cinghia e ingranaggio di un sistema che si sta uccidendo (ma che al contempo non si può uccidere se si vuole vivere), e dall’altro è vittima e carnefice che deve ritessere le fila di quel destino così ingombrante che gli ha soffocato la più grande delle libertà.
L’azione, così, si lascerà smascherare proprio da parole diverse. Dopotutto, cosa cambia se uccidere è un tiro a un bersaglio in movimento o se è invece una colpa primigenia? Forse a cambiare siamo proprio noi, che cambiamo lungo il corso del tempo, e neanche ce ne accorgiamo. E forse, anche questo, è un gran peccato.
Se da un lato è proprio la forma del dittico ad aprire la cerniera che giustappone questi due spettacoli, dall’altro il loro contenuto tragico ne rimarca la distanza (non solo temporale).
Sebbene il metodo di indagine di Archivio Zeta sia applicato a entrambi, la tragicità di L’uomo e le cose ci è probabilmente più prossima di quanto non lo sia la tragedia sofoclea, quella stessa tragedia per antonomasia su cui Freud tanto insistette suggellando l’unione con un’umanità sempre più miope.
È lì che riemergono le domande più stratificate: perché non si deve uccidere, allora? Per convenzione o perché è un’azione tragica? Ed è proprio lì, a nostro parere, che il lavoro drammaturgico permette di andare oltre la fissità delle verità, o della validità di un sistema, o dell’illusione della risposta. Cercare. Cercare sempre. Cercare ancora. Senza “dover” trovare mai.
Cantiere Florida, Firenze – 27 aprile 2016
Limonaia di Villa Strozzi, Firenze – 29 aprile 2016