Progetto Pilade/Pasolini
Direzione artistica Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni / Archivio Zeta
Bologna _ 1 novembre 2015
“Clitemnestra, Agamennone, Egisto, Oreste, Apollo, Atena (…) sono degli strumenti per esprimere scenicamente delle idee, dei concetti: insomma, in una parola, per esprimere quella che oggi chiamiamo un’ideologia”. Scriveva così Pasolini nel 1960, a margine della sua Orestiade, discussa traduzione della trilogia eschilea commissionata da Gassman e presentata quello stesso anno al teatro greco di Siracusa. Attingere al dettato tragico per leggerlo in senso esclusivamente politico: operazione, questa, non priva di rischi e di forzature, che continua a distanza di decenni ad affascinare e a respingere.
L’occasione per addentrarsi nelle vive contraddizioni del teatro di Pasolini, e nella sua corsara prospettiva sui classici, è stata offerta dal progetto Pilade/Pasolini della compagnia Archivio Zeta (Premio Rete Critica 2014), non nuova ad attraversamenti di ampio respiro del dramma antico. Accanto alla ‘maratona’ Pilade – di cui diremo tra poco – è stato messo a punto un interessante calendario di incontri, a cura di Rossella Menna, dedicati ad alcuni aspetti cruciali dell’universo Archivio Zeta e all’opera di Pasolini. In questo ambito è intervenuto il 28 ottobre Federico Condello, Professore di Filologia greco-latina all’università di Bologna, offendo una riflessione critica sulla portata e la ricezione dell’Orestiade e del Pilade. Riflessione particolarmente preziosa nelle giornate delle celebrazioni pasoliniane, caratterizzate da una tendenza alla semplificazione che, viene da pensare, avrebbe allarmato lo stesso Pasolini: da un lato i compatti cori encomiastici su quotidiani e social network, dall’altro critiche superficiali e strumentali come quella di Gabriele Muccino.
Dalle ceneri dell’Orestiade – dall’impossibilità, cioè, di sovrapporre totalmente al testo tragico antico una lettura in larga misura ideologica – nasce Pilade, operazione che segna un consapevole allontanamento dal materiale mitico di partenza. Lo schema concettuale messo alla prova con Eschilo, ricorda Condello, conduce Pasolini pochi anni dopo a una più profonda manipolazione del sistema dei personaggi, che diventano così mere prosopopee, pure incarnazioni di idee: Oreste è il garante di una democrazia liberale, già capitalistica in nuce, mentre Pilade personifica la necessità di una rivoluzione socialista e partigiana.
Il risultato è un dramma lungo, complesso, fortemente connesso al dibattito politico degli anni della composizione (la prima versione esce sulla rivista “Nuovi Argomenti” nel 1967): una sfida non semplice per chi oggi provi a metterlo in scena. Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni hanno lavorato all’impresa per un intero anno, concedendosi frammentazioni, laboratori, tappe di approfondimento.
L’intero percorso è stato presentato al pubblico domenica primo novembre, nell’ambito del progetto “Più moderno di ogni moderno”, voluto dal Comune di Bologna per celebrare Pasolini. Una maratona in tre tappe che, fin dalla struttura, cerca di sfuggire alla trappola di uno spettacolo chiuso, concluso, definitivo. Archivio Zeta lavora piuttosto a far detonare echi e risonanze: in primis all’interno del testo – attraverso una recitazione anti-psicologistica, dilatata, che pare restituire le parole come sculture a sbalzo – ma anche nel rapporto dialettico tra testo e spazio: i tre luoghi scelti per la performance sono amplificatori delle istanze politiche del dramma (Pasolini scriverà su “Paese Sera” nel settembre 1969 che Pilade racconta “una sola verità: l’orrore del potere”). L’incipit del percorso è stato pensato dalla compagnia nella napoleonica Villa Aldini, set cinematografico del film Salò (1975), oggi tappa obbligata per i rifugiati richiedenti asilo: qui, non a caso, il coro delle Erinni/Eumenidi è composto dai migranti del centro di accoglienza, che si avvolgono nelle coperte termiche offrendo allo spettatore uno stridente cortocircuito tra schegge di attualità da telegiornale e immaginario mitico. Si prosegue al Poligono di tiro nazionale di Bologna, teatro di numerose fucilazioni di partigiani nel settembre del ’43, dove la ricerca di Pilade di compagni di lotta diventa pregnante rievocazione delle vicende di cui ancora lo spettatore percepisce l’eco (“L’odore della carne bruciata e delle primule / si confonderanno in quel silenzio”, profetizzano le Eumenidi). Il viaggio di Pilade si conclude alla Pensilina Nervi, deserta tettoia di riparo per i produttori del vicino mercato ortofrutticolo, vuoto esoscheletro di una città in rapido cambiamento: l’episodio, prodotto sotto l’egida di VolterraTeatro (lì ha debuttato, nella scorsa edizione del festival), ha visto la partecipazione di alcuni operai licenziati della fabbrica Smith Bits, multinazionale che ha chiuso la sede toscana lasciando oltre 200 dipendenti in mobilità.
Il risultato della maratona – messa in scena con un folto gruppo di non professionisti – è un lungo momento di condivisione civica impossibile da giudicare attraverso i consueti canoni teatrali, che spezza i legami della costruzione drammaturgica chiusa per inglobare gli spazi, gli spettatori, intere fasce di cittadinanza rendendole parte attiva. La dilatazione e la frammentazione portano in secondo piano, inevitabilmente, l’immediata intelligibilità dell’azione, ma restituiscono un’urgenza politica che è un profondo omaggio alla scrittura di Pasolini: “in lui l’urgenza di dire è tale che probabilmente non gli fa tener d’occhio quello che sta facendo da un punto di vista strutturale. (…). Una concezione della teatralità come studio dell’effetto e del risultato Pasolini la rifiuta, e credo che faccia bene a rifiutarla”, ebbe a dire Luca Ronconi intervistato da Walter Siti.
Ed è questa, in fondo, l’efficace lezione che Archivio Zeta ci consegna: proporre oggi il teatro pasoliniano non può essere ossequiosa riproposizione delle sue istanze politiche, ma interrogazione profonda sul mutare di quelle istanze.
Maddalena Giovannelli