Il teatro di Pasolini: in vita ignorato, in morte glorificato. Perché?
Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni: In realtà ci sembra poco glorificato anche in morte. O meglio, ci sembra che in pochi lo abbiano preso sul serio. I testi teatrali di Pasolini sono indissolubilmente legati alle idee contenute nel Manifesto per un nuovo teatro. Quel Manifesto, paradossalmente, è ancora valido: da una parte continua ad esserci il teatro dell’Urlo e del Gesto e dall’altro quello della Chiacchiera.
Dopo aver pubblicato Pilade sulla rivista Nuovi Argomenti, nel 1967, l’autore dichiarò: “Per l’eco che ha suscitato, avrei anche potuto pubblicare cento pagine bianche”. Cosa vi ha attratto, di quel testo?
G. G. ed E. S.: Cento pagine bianche, bellissimo! Si ha sempre l’impressione che Pasolini abbia una gran fretta: voleva suscitare dibattito o scandalo. Noi invece siamo stati attratti da Pilade proprio perché ci sembra un vasto poema aperto, un’astratta ricognizione sulla storia del nostro Paese. E poi Pasolini ha lavorato molto su questo nodo mitico. E noi siamo arrivati a Pilade dopo quattro anni di lavoro sull’Orestea. Anche se non abbiamo utilizzato la sua versione, quello che Pasolini scriveva a proposito della sua traduzione dell’Orestiadeeschilea può essere valido anche per noi che abbiamo fatto letteralmente a pezzi la tragedia di Pasolini: “Mi sono gettato sul testo a divorarlo come una belva, in pace: un cane sull’osso, uno stupendo osso carico di carne magra, stretto tra le zampe, a proteggerlo, contro un infimo campo visivo”. A partire da queste radici, abbiamo provato innesti per nuovi frutti di Teatro di Parola.
Formalmente quello di Pasolini è innanzitutto, appunto, un Teatro di Parola. Anche il vostro?
G. G. ed E. S.: Niente Chiacchiera e niente Gesto o Urlo, ma un teatro che è rito culturale. Dal confronto diretto con la materia, dalla lima e dalla pazienza, nascono le idee per la messa in scena. La tragedia greca ci ha insegnato l’essenziale. L’azione è nel logos.
Come si combatte, nel lavorare su un autore così “alla moda”, il rischio di compiacere un certo conformismo di sinistra?
G. G. ed E. S.: Quando sei anni fa abbiamo deciso di fare l’Orestea sapevamo già che avremmo fatto Pilade. Pasolini è un’icona ma Pilade è totalmente inattuale: soltanto cercando un corpo a corpo come verso a verso con il significante, si viene scaraventati di nuovo nella realtà. Nel mezzo, tra Eschilo e Pasolini, ci sono state tante deviazioni, tante assonanze, tanti vincoli: Thomas Bernhard, Sofocle, Primo Levi, Goffredo Parise, Henrik Ibsen, Giordano Bruno, Leonardo da Vinci, Karl Kraus. Tutte queste ramificazioni fanno parte di un nostro personale percorso filosofico, politico, intellettuale e artistico che non si cura affatto delle mode o dei conformismi. Il problema non è mai cosa ma come.
Il 1° novembre a Bologna verranno presentati in un’unica giornata i tre episodi del vostro Pilade/Pasolini. Perché questa Maratona?
G. G. ed E. S.: Questo lungo viaggio è durato un anno e ci è sembrato naturale chiudere con una maratona. La maratona ci piace perché è una corsa in cui devi misurare le forze nella distanza e poi è una corsa greca, ha a che fare con qualcuno che corre per portare messaggi. Noi non abbiamo un messaggio da recapitare però vorremmo che il pubblico, insieme a tutte le persone coinvolte, potesse compiere un viaggio in compagnia di queste parole. Alcuni spettatori hanno seguito tutte le tappe, altri solo una, ciascuno costruirà un proprio personale montaggio e darà senso. La maratona fa parte di questo rito culturale prolungato nel tempo e nello spazio.
L’attenzione alle potenzialità drammaturgiche degli spazi non teatrali è da tempo una delle caratteristiche del vostro lavoro. Quali peculiarità dei luoghi attraversati a Bologna avete cercato di mettere in luce?
G. G. ed E. S.: Lavoriamo esattamente come se dovessimo girare un film. Cerchiamo dei set e poi invece della macchina da presa ci portiamo gli spettatori. Per Bologna abbiamo pensato a una discesa agli inferi che è anche un percorso architettonico che dal neoclassico napoleonico attraversa gli anni trenta e arriva al cemento armato e ai grattacieli: si va dai colli, alla periferia, alla città in costruzione o in dismissione.
Oltre cento persone andranno in scena il 1° novembre. Che cosa vi sorprende, nel lavorare con non professionisti?
G. G. ed E. S.: Non facciamo distinzioni. Pretendiamo lo stesso impegno e lo stesso rigore. Ci interessa l’essere umano, i volti, l’unicità della voce. Il teatro come “terreno di relazioni”, come dice Hannah Arendt.
Il teatro di Pasolini, oggi, ha più bisogno di Grandi Attori, di attori-intellettuali o di non-attori?
G. G. ed E. S.: Il teatro in generale ha bisogno di tutte queste categorie, anche se per noi non esistono separazioni, tendiamo a non avere una visione romantica dell’arte della recitazione.
A fare da cornice e accompagnamento alla Maratona ci sarà il ciclo di incontri Una bestemmia alta, dolce e ragionata. Perché questo titolo?
Rossella Menna: Lo dice Pilade ad Atena, parlando dell’incertezza in cui si scioglie, inevitabilmente, ogni ricerca di verità: “Tuttavia sento… che se anche questa mia pura e semplice incertezza volesse prendere la forma di una bestemmia… anche questa bestemmia… non potrebbe essere che alta, dolce e ragionata!”. La bestemmia, la ribellione di Pilade, la protesta dell’Uomo di fronte a se stesso, così archetipica, non trascorre nell’urlo né si manifesta con la violenza, ma assume la forma mite di uno stare, di un autoesilio, una fatica, contenuti tutti in una parola alta, originaria, forzata all’inverosimile perché possa dire: la poesia. Dal mio punto di vista, Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti fanno esattamente questo, con i loro spettacoli lanciano una bestemmia alta, dolce e ragionata; stanno, pazientano. Come direbbe Pavese: “Insistono sempre sulla stessa difficoltà”.
In alcuni dei luoghi scelti risuona la biografia di Pasolini.
R. M.: Il primo appuntamento del ciclo di incontri, dedicato proprio al testo, è nella magnifica biblioteca settecentesca del Galvani, liceo in cui Pasolini si è diplomato.
G. G. ed E. S.: E Pilade/Parlamento va in scena invece a Villa Aldini, dove sono stati girati gli esterni di Salò. Ma è un luogo rimosso, non lo sa quasi nessuno.
Quale tipo di sguardo richiedono queste opere, questi incontri, questi luoghi?
R. M.: Il ciclo di incontri è nato proprio da una riflessione sullo sguardo, dalla volontà di provare a stabilire un ponte, per consentire agli spettatori di entrare lentamente nella lingua di Archivio Zeta che è antichissima e completamente nuova; perché possano accostarsi a una metrica senza volerla parafrasare, per allenarli ad ascoltare con gli occhi il suono prodotto da un movimento ampio e visibile, e a vedere con le orecchie la tragedia che si compie tutta nella parola, senza perdere di vista il terreno che calpestano in quello stesso momento. Non per saperne di più, ma per goderne davvero, e tanto! Nella cultura teatrale contemporanea talvolta sembra una eresia, questo voler “aiutare” il pubblico, ma ho la sensazione che si tratti di un errore madornale. Prima di godere di una poesia è necessario superare la difficoltà di una metrica non quotidiana, entrare nel verso per leggerlo con il ritmo con cui è stato concepito. Nel teatro, come nelle arti visive, e nella musica, vale lo stesso principio: il cuore e la mente vanno alfabetizzati di volta in volta. Che occorra un minuto o una settimana non importa; un inciampo nell’occhio deve esserci, altrimenti ci stanno ripetendo quello che già siamo e già sappiamo. Lo fa meglio la televisione.
Le giornate bolognesi concluderanno un vostro affondo pasoliniano durato molti mesi. Perché questa vastità?
G. G. ed E. S.: Pilade è la nostra Heimat. Con tutti questi legami con l’Orestea, con tutti questi riferimenti alla Resistenza, al mondo che sta franando: ci siamo ritrovati davanti un testo che parlava di tutti gli argomenti che ci stanno a cuore o che avevamo trattato in altri spettacoli. E quindi non abbiamo potuto fare altro che assecondare la forma drammaturgica e farlo a pezzi seguendo gli episodi e cercando tempi e luoghi giusti per ciascun episodio.
Inoltre nell’isolamento di questi anni le opere che abbiamo approfondito erano tutte caratterizzate dalla vastità, forse perché essa era anche nelle montagne intorno a noi e nell’architettura del cimitero della Futa. Abbiamo bisogno di un respiro ampio, ci piacciono i cicli di affreschi, le tetralogie, i miti. In questi anni abbiamo vissuto molto a Tebe e a Argo. Queste due città sono luoghi molto vasti del pensiero occidentale. Anche Pilade richiedeva questo spazio perché parte dalla Grecia per entrare nella storia del fallimento dei miracoli di Atena: una riflessione che anticipa l’ultimo Pasolini, ma anche i licenziamenti della Smith Bits di Volterra, i migranti o gli sfrattati della ex Telecom di Bologna. Ma abbiamo fatto spettacoli anche brevi: L’uomo e le cose, che riprenderemo in primavera, tratto dal Crematorio di Vienna di Goffredo Parise, dura 40 minuti.
Michele Pascarella