Nei canti di Omero
Massimo Marino | 26/04/2014 | Corriere di Bologna
Archivio Zeta porta in scena «Iliade. I fiumi parlano»
Il lavoro è un corpo a corpo con la parola del poema
Il poema della/orza lo definiva Simone Weil, osservando l’Iliade nell’anno orribile 1940, quando la tendenza a ridurre gli uomini a cose con la guerra appariva un’attitudine umana più che mai attuale. Iliade. I fiumi parlano è uno spettacolo che ripercorre i canti finali del poema omerico. Lo presenta Archivio Zeta, la compagnia che in agosto allestisce spettacoli classici nel Cimitero militare germanico della Futa, di cui abbiamo ammirato di recente una versione del Nemico del popolo di Ibsen a Teatri di Vita.
Questa Iliade può vedere martedì 29 alle 21 all’oratorio di san Filippo Neri della Fondazione del Monte (via Manzoni 5; ingresso gratuito con prenotazioni web: http://prenotazioni.fondazionedelmonte.it), nel ciclo «La pietà» a cura del grecista Federico Condello.
Ci racconta Gianluca Guidotti, con Enrica Sangiovanni regista, interprete e anima della compagnia (in scena anche Alfredo Puccetti e Luciano Ardiccioni, musiche di Beethoven e Xenakis): «L’abbiamo presentata per la prima volta nel 2009 e replicata in luoghi come Sant’Anna di Stazzema, Monte Sole, il teatro romano di Fiesole (le foto di Franco Guardascione si riferiscono a quel luogo), al teatro greco di Segesta, al fabbricone di Prato e nel teatrino di Bufi. Qui portiamo una versione lievemente ridotta. Ci concentriamo sulla consegna delle armi forgiate da Efesto ad Achille, sul duello con Ettore e sulla sua morte, sul dialogo tra Priamo e Achille, con il vecchio padre che fa scattare nell’eroe il sentimento della pietà».
Questo lavoro non ha bisogno di ampi spazi scenici: è principalmente un corpo a corpo con la parola: «Recitiamo i discorsi diretti e quelli indiretti, pieni di molte, ricche similitudini. E come un fiume in piena di parole, e per questo gli abbiamo dato quel sottotitolo. Gli attori sono come le figure nere su sfondo rossastro dei vasi attici. Ci sono pochi, geometrici oggetti, come il cerchio e la retta, che richiamano lo scudo e la lancia».
Questo lavoro della compagnia che risiede a Firenzuola, sull’Appennino tra Emilia e Toscana, è nato a Bologna, da un laboratorio al liceo Minghetti. «Scoprimmo la traduzione di Rosa Calzecchi Onesti. Ci piacque moltissimo da recitare. Era stata commissionata alla giovane studiosa da Cesare Pavese, che l’aveva seguita passo passo, parola per parola. Ci piace perché è moderna ma mantiene qualcosa di arcaico. È comprensibile e solenne insieme». Alla scoperta di questa versione corrispose anche quella del saggio di Simone Weil, del suo sguardo secondo il quale Omero unifica vincitori e vinti, greci e troiani, e tutti travolge nella violenza della guerra: «Quella visione, filosofica e poetica, ci avvinse. E conoscemmo un’altra studiosa, che ne aveva scritto in termini simili, analizzando proprio le scene che interessavano a noi, Rachel Bestpaloff. Ha supportato la nostra scelta drammaturgica».
Questa opera, come le altre di Archivio Zeta, vanno verso quel «teatro di parola» che sognava Pasolini, un luogo della dialettica civile, dove far agire le contraddizioni per scoprire qualcosa della nostra società (non necessariamente una soluzione). «Tornare a dire quei versi dopo altre esperienze è un esercizio attoriale complesso e entusiasmante: vuol dire stare dietro il ritmo e la creazione di Omero, e immergervisi».
Massimo Marino