Lingue tagliate (domenicale 6)
Massimo Marino | 05/04/2014 | Corriere di Bologna / BOblog
Lingue tagliate (domenicale 6)
Proviamo a tendere forse improbabili ponti tra due spettacoli visti nella settimana, molto diversi: Giudizio Possibilità Essere, nuova tappa della saga E la volpe disse al corvo, la rassegna dedicata a Romeo Castellucci dal Comune di Bologna; Nemico del popolo di Archivo Zeta, visto a Teatri di Vita. Il primo è estratto da uno spettacolo nato per il palcoscenico, The Four Seasons Restaurant, ed è stato portato in una palestra, tra attrezzi ginnici. Il secondo è stato concepito in un capannone che era servito come deposito alle ferrovie durante i lavori dell’alta velocità, uno spazio lunghissimo, in cemento, con porte apribili sul tramonto tra i monti dell’Appennino. Giudizio inizia con un taglio di lingue e prosegue con un tentativo smozzicato di parole fuori sincrono per ricordare La morte di Empedocledi Hölderlin o per mostrarne l’assenza, l’impossibilità di ritrovarsi nella struttura classica della tragedia (già messa in crisi, peraltro, dal poeta tedesco). Nemico del popolo adatta il testo di Ibsen alla lingua dei nostri giorni, con un evidente discorso civile, o politico, affidato apparentemente alla parola, che rievoca la questione dell’Ilva, con un’ispirazione pasoliniana che sta tra la denuncia e la necessità di creare una nuova lingua per capirsi e affrontare questioni di rilevanza comune. Ebbene: anche questo secondo testo, in realtà, racconta un viaggio negli spazi mentali dei tempi che viviamo, e mette in dubbio, alla fine, con la forza della tragedia antica, la possibilità di attingere una sola (o una qualsivoglia) verità. Là, nella creazione di Castellucci, si finisce con una nascita che può essere un precipitare doloroso, nudi, inermi, in un mondo insensato. Nel Nemico si mostra il potere coercitivo della democrazia, il rovesciamento del senso del linguaggio, e si termina con un processo che decreta l’espulsione del capro espiatorio (chi ha provato a cercare e a dire la verità) dal corpo sociale. Si finisce con un linciaggio e un esilio: dal quale si potrà tornare solo accettando le regole della maggioranza.
Giudizio Possibilità Essere
Lanciati negli spazi siderali, tra le esplosioni dei venti gassosi che si scontrano sui bordi del più grande buco nero della galassia, stiamo in una palestra di un grande centro sportivo di Bologna di fronte a uno schermo e ad alcuni attrezzi a muro. Fuori si sentono voci di ragazzi che giocano a calcio. Giudizio Possibilità Essere di Romeo Castellucci, creazione estratta da The Four Seasons Restaurant, ci investe nella penombra con quei suoni ricostruiti nei laboratori del Mit di Boston, e ci trascina, subito dopo, quando l’illuminazione si fa totale, in un rito di ragazze in vestiti di campagna ottocentesca, tra bandiere della Confederazione degli stati secessionisti del Sud e versi della “Morte di Empedocle” di Hölderlin, detti con voci sommesse o squillanti, o amplificati metallicamente da microfoni fuori sincrono con le labbra, in un rito officiato con gesti ampli da pittura e da scultura rinascimentale o neoclassica, da pose sceniche del teatro ottocentesco, verso una natura, evocata come sublime, paurosa e meravigliosa, e una società che rifiuta il filosofo, l’artista, calunniandolo, emarginandolo, mettendolo a tacere, spingendolo al suicidio nel fuoco dell’Etna come gesto per affermare la propria verità indimostrabile.
Il rito, che del testo lascia folgorazioni a sprazzi, mai una sequenza completa, resti, macerie, frammenti, inizia, emozionante, con le fanciulle che, entrando da sole o in piccoli armonici gruppi, si tagliano la lingua: arriva un cane nero e ne mangia i resti. E finisce con un impugnare armi, alcune perfino dorate, e con un chiudersi a bocca di vulcano o a utero e far rinascere, nude, le attrici, e uscire di scena, verso le voci che giocano a calcio, all’esterno.
Misterioso spettacolo di un artista da definire più autore che regista, reinventa il teatro fuori dall’intrattenimento, dalla didascalia, dalla narrazione, dalla facile emozione: come rito profondo, come sfida all’intelligenza per capire, trasversalmente, i tempi; come segreto di immagini che verranno rivelate solo da un lavorio profondo della psiche; come rimpianto per l’impossibilità, nei nostri tempi, dell’assoluto della tragedia.
Nemico del popolo
Sotto musiche stridenti, rumori di acque, sonorità minacciose, con in scena appena una scrivania, due sedie, un tavolone da lavoro di tipografia, Il nemico del popolo di Henrik Ibsen grazie all’allestimento di Archivio Zeta viene proiettato verso gli scontri dei nostri tempi. Il testo, scritto dall’autore norvegese nel 1882, nel suo periodo di maggiore creatività e impegno politico, narra di un impianto termale che insieme alla ricchezza porta un inquinamento insostenibile. Il contrasto tra distruzione dell’ambiente e della salute e interessi economici tira in ballo un altro mito dell’industrialismo, quello della libera stampa. Il dottor Stockmann vorrebbe denunciare le malefatte e costringere la proprietà a risanare: trova ascolto in un giornale locale, che però torna sui propri passi quando scopre che la ristrutturazione delle terme allontanerebbe i turisti per anni, colpendo gli interessi dei piccoli proprietari.
Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti hanno asciugato l’originale, mescolandolo con la perizia per la magistratura sull’Ilva di Taranto e trasformando il protagonista in donna (la interpreta la stessa Sangiovanni, mentre Guidotti è il fratello, il sindaco a guida degli azionisti, Alfredo Puccetti è il direttore del giornale e Luciano Ardiccioni il tipografo rappresentante dei piccoli proprietari). Eliminati i personaggi di contorno, il dramma esplode in una nudità devastante. La recitazione è rallentata, per evidenziare, sotto, dentro, dietro le parole, le intenzioni nascoste, le aspirazioni contrastate. I pochi arredi vengono spostati continuamente per delineare i rapporti profondi tra i personaggi, sotto l’incombente colonna sonora di Patrizio Barontini.
Teatro dei segni: le relazioni spaziali, i toni di voce, tutto evidenzia le forze in (irresolubile) tensione, sottolinea le ambiguità dello scambio linguistico e lo scontro tra ideologie e interessi. L’officina tipografica diventa protagonista, con la pagina a piombo di denuncia prima composta e poi svuotata, ridotta a vuota cornice, a inquadrare il volto della protagonista sconfitta. A un certo punto l’azione si svolge tra gli spettatori e davanti al sipario chiuso, in questa versione teatrale che perde la nuda profondità dello Spazio Tebe, il capannone in cemento dove il lavoro è nato. Viene interpellata la comunità, rappresentata dagli spettatori reali (ai quali però non è concesso diritto di parola), per decidere se il dottore, con la sua denuncia, è un nemico del popolo. Il verdetto è già scritto, in quest’opera ottocentesca che Archivio Zeta riporta alla violenza sacrificale della tragedia greca, dando a ogni personaggio insieme una solida motivazione per il suo agire e una hybris, mentre lo spettacolo diventa una Via Crucis, sotto le note commoventi dello Stabat Mater di Pergolesi.
La foto di apertura, di Giudizio Possibilità Essere, è di Luca Del Pia