la potenza drammaturgica dell’Imago
Leonardo Favilli | 11/08/2021 | Gufetto
IL VOLTO @ Cimitero Militare Germanico al Passo della Futa: la potenza drammaturgica dell’Imago
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Ispirato al romanzo L’idiota e alle memorie del condannato Achšarumov, IL VOLTO (in scena fino al 15 agosto al Cimitero e poi di nuovo a Bologna fino al 22 agosto) chiude il più ampio progetto Topografia Dostoevskij che la compagnia Archivio Zeta ha dedicato allo scrittore russo a partire dal Pro e Contra Dostoevskij di due anni fa (recensito qui da Gufetto). Ancora una volta i silenzi del Cimitero Militare Germanico al Passo della Futa, luogo per il quale la messa in scena è stata riadattata dopo l’anteprima a Villa Aldini a Bologna, hanno amplificato le suggestioni di una drammaturgia capace di trasporre lo spettatore in una dimensione senza spazio e senza tempo.
In questo articolo:
IL VOLTO: Arte visiva oltre il teatro
ARCHIVIO ZETA: una drammaturgia spirituale
IL VOLTO: Arte visiva oltre il teatro
“Ci si può immaginare ciò che immagine non ha?” Laddove la realtà rifugge una schematizzazione ed è impossibile catturarla perché effimera, durevole solo per il tempo fugace in cui il pensiero la crea e altrettanto fugacemente la distrugge, l’immaginazione può non bastare per dare forma a quella realtà. Ogni rappresentazione è limitante e le cornici del pittore restano vuote, accatastate in un angolo. Solo una rinnovata capacità di guardare ci permetterebbe di riconoscere dove va posizionata la cornice, dove e quando quella fugacità assume una forma intelligibile da poter diventare il nostro quadro, liberando quella realtà da un tempo tiranno che ce la rende sfuggente. Serve pertanto isolare quell’istante, fatto di quello stesso tempo che, all’interno di quell’attimo, non esiste più e diventa un’eternità gloriosa, un Infinito dentro l’infinitesimo, una Imago che da rappresentazione diventa visione.
Nella storia dell’arte pochi sono stati gli artisti capaci di raggiungere una tale abilità di osservazione trasmutando la natura della loro vista in un coacervo di sensazioni, resesi forma sulla tela proprio come se la cornice le inquadrasse là dove i loro contorni si sono definiti nello spazio. E’ così che Hans Holbein il Giovane è riuscito a racchiudere nel suo Cristo morto nella tomba la sofferente consapevolezza di un uomo che, pur essendo il Messia, non è riuscito a vincere le leggi di Natura, belva implacabile e macchina sorda al grido degli uomini. Quella stessa natura che il Principe Lev Nikolàevič, un ancora convincente Alessandro Vuozzo, domina dai terrazzamenti del Cimitero, viandante per il quale si sono diradate le nebbie atmosferiche ma non quelle esistenziali. Davanti a quel corpo emaciato e ancora sofferente sulla tela nonostante la morte lo abbia oramai vinto, il Principe trova la rappresentazione di se stesso, estraneo al mondo che lo circonda e portatore di un messaggio cui gli altri sembrano sordi, come se la Natura avesse partorito un figlio informe, un aborto senza un cammino delineato, un Cristo le cui parabole, ancora una volta, non sono comprensibili ai più.
ARCHIVIO ZETA: una drammaturgia spirituale
Di fronte alla corporeità quasi scarnificata di quell’uomo si leggono ancora i segni del supplizio subito, che non sono solo le ferite indelebili nella carne ma è la profondità di uno sguardo esangue di fronte al quale sembra impossibile il pensiero della Resurrezione. Resta pertanto solo lo spazio per il terrore di un tempo, quello precedente la morte e cristallizzato in quel volto martoriato, dove l’incertezza per la trasformazione spaventa assai più della morte stessa. Lo sa bene il condannato a morte Dmitrij Dmitrieviç Achšarumov (Giacomo Tamburini), compagno di cella di Dostoevskij, un Gianluca Guidotti in lungo cappotto nero e cilindro sulla testa, guida per il pubblico e presenza costante in scena. Graziato anche lui come lo scrittore, nelle sue memorie, che nella drammaturgia di Archivio Zeta assumono dimensione onirica nella mente del Principe, soluzione metaforicamente potente, ogni gesto precedente la fucilazione, poi non eseguita, è definito da un tempo scandito con precisione maniacale in un’attesa che terrorizza. Il ritmo crescente assume toni ansiogeni fino ad un climax che resta quasi soffocato quando viene annunciata la grazia, il Principe si risveglia e finalmente la cornice della pittrice ospitante (Enrica Sangiovanni) trova il suo contenuto in quel volto di uomo come era stato per Holbein di fronte al cadavere di un torturato a morte. La visione prende quindi vita nella drammaturgia all’interno del Sacrario dove il Principe, nuovo Messia spogliato della veste dal sapore manicomiale si distende nel vano della stretta finestra col sole che radente si infiltra nell’intimo spazio dove finalmente è possibile raccogliersi in adorazione. Finalmente il Principe appare liberato dal peso della sua pazzia e trova pace in quel loculo di luce, potere di una straordinaria drammaturgia che supera i confini dell’immenso romanzo spingendolo fin dentro una dimensione spirituale inarrivata e forse inarrivabile, per formazione culturale e non per capacità, dallo stesso autore.
IL VOLTO: Ultima tappa della trilogia Dostoevskij
Ennesima riprova dell’abilità di analisi e sintesi di Archivio Zeta e soprattutto delle sue anime Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, Il volto è la degna chiusura di un percorso che è iniziato con la disintegrazione di un equilibrio in un continente, l’Europa, che era un cimitero, dove lo sconvolgimento delle leggi etiche aveva reso Belzebù, in Pro e Contra Dostoevskij, una vittima del sistema costretto a compiere il male per mantenere lo status quo e la sua conquistata moralità. Ancora risuonano le parole del diabolico personaggio (“fin troppo vasto è l’uomo”) e nella lotta contro le leggi di quella Natura serve sbrigliarsi da quell’ultimo vincolo, quel filo che legava il Principe ad una moderna Parca in un corpo di bambina e che impediva all’uomo di esprimere questa sua vastità. L’Immaginazione è infine la chiave di questa nostra libertà, che è capace, adesso lo sappiamo, di dare un’immagine a ciò che non ce l’ha. Con la sua poesia e la suggestione di ogni singolo quadro l’intero testo drammaturgico sembra dare risposta a quella domanda rimasta sospesa nell’aria sferzata dal vento (“Principe, è vero che la Bellezza salverà il mondo?”). Noi sapremmo rispondere ma l’ossequioso silenzio che alberga fuori e dentro di noi ci sovrasta e solo un emozionato applauso riesce infine a romperlo, doveroso tributo ad un percorso che riteniamo uno dei progetti più riusciti della compagnia. Oltre la rappresentazione riusciamo a conservare una visione senza tempo, indelebile e potente, figlia di un teatro che continua a convincerci e a sconvolgerci.